INDICE N.10

PREMESSA 3 7 DOMANDE SULLA FINE DELL'UOMO 5 DARE FUOCO ALL'UTOPIA 27 IL SALTO DEL CYBORG 31 UNA "NUOVA" FANTASCIENZA 35 ALBA DI RUGGINE 38 RACCONTI D'ARCHIVIO 48 BIBLIOTORK INTERZONA CARONIA 52 QUESTA PERSONA NON ESISTE 53 LE RICETTE DI GAIA 59 5+5 63 IN RICORDO DI PRIMO MORONI 69

UN’AMBIGUA UTOPIA Rivista di cultura fantastica Numero unico - N. 10, Giugno 2020

Supplemento a Progetto Memoria Aut. Trib. Bologna n. 5737 del 3.5.1989. Dir. Resp. Valerio

Evangelisti

REDAZIONE Abo, Gaia, Giorgio, Angeles, Giuliano, Ufo

HANNO COLLABORATO

Salvo Torre , Alice Dal Gobbo, Maura Benegiamo, Emanuele Leonardi, Giorgio Griziotti, Domenico Gallo, Daniele Barbieri, Gennaro Fucile, Roberto Paura, Matteo De Giuli, Nicolò Porcelluzzi, Pier Mauro Tamburini, Federica Bardelli, Giancarlo Ghigi, Bruna Miorelli, Loretta Borrelli, Patrizia Brambilla, Antonio Caronia, Andrea G. Necchi,

Beppe, Tiziano Salari

GRAFICA Redazione UAU

CONTATTI

archivio-uau.online

NUMERO COMPLETATO PRIMA DEL D.P.C.M.

SUL DISTANZIAMENTO SOCIALE

IL CULTO DI UN'ERA

La scienza seziona il tempo geologico con grande cura e, proprio per questo, senza pretese di finitezza. ll taglio delle fette più grandi, eoni ed ere , non ha alcuna presunzione di precisione. Mano a mano che si procede nella dissezione di periodi ed epoche, mano a mano che ci avviciniamo alla scala del tempo storico, lo scandire del tempo si fa più preciso, e, la contraddizione è solo apparente, soggetto a dibattito e periodici aggiustamenti. 11700 anni fa è cominciata l’epoca intimamente legata al nostro intervento. Un’epoca il cui start non è segnato dall’avvento dell'uomo ma dentro la cui stratigrafia riconosciamo i segni chimici (innalzamento della concentrazione di CO2 in atmosfera) e biologici (mutamenti nella biodiversità, estinzioni precoci..) del passaggio di Homo sapiens.

Tutto quanto l'umano ha costruito, modellato, in definitiva immaginato, potrebbe sparire in soli 10000 anni. Parliamo delle tracce fisiche, altro discorso vale per quelle chimiche. Non sappiamo dire con precisione “a partire da quando” l'uomo si è fatto marcatore del tempo geologico, forza tellurica oltre che forza storica. Ciascuna delle proposte in campo (si collocano tendenzialmente negli ultimi 528 anni!) rappresenta una sfida tesa a correggere, esplicitare, aggettivare, decostruire, la presentissima definizione del nostro tempo attraverso il lemma Antropocene .

Non è compito di questa rivista, e non perché non ve ne sia bisogno, suggerire un’opzione lessicale preferibile per descrivere il tempo che viene. Non siamo certi che fomentare l’uso pubblico della parola termo- tanato-

o capitalocene, come ultimamente in voga, basti a precisare in un sol colpo le molteplici ambivalenze che

una definizione di carattere scientifico porta con sé. Per descrivere la grottesca coincidenza di climax e tracollo, benessere e disagio psichico, privilegio e sfruttamento, che l'apice della globalizzazione sviluppista e finanziaria porta con sé, dobbiamo giocare ostinatamente fuori casa per motivi testimoniali. AI tempo stesso possiamo cimentarci in rotte oblique, ucronie necessarie, posture non assertive per esprimere La fine dell’uomo per come lo abbiamo conosciuto. Una fine che non è dell'Uomo dell'umano. Un ambiguo epilogo, in ogni caso irriducibile ad un’unica dimensione di genere, cultura e classe. Il dispiegamento di un’ecologia politica potrebbe non darsi dentro e contro, ma

nonostante una realtà in metastasi.

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A Giancarlo Bulgarelli

NOTE SU UNA POSSIBILE TRASFORMAZIONE DELLA RIVISTA

Cambieret in primo luogo l'intestazione della rivista “Fantascienza, critica,

cinema, fumetto e altro”. Mi andrebbe una cosa come “Rivista di critica della

cultura fantastica”, o “Rivista di cultura fantastica” se non fosse troppo

pretenzioso e vecchio. Potrebbe andar bene forse “Rivista dell'Immaginario”,

o ‘Immaginario, simulacri, codici” (per un titolo del genere, però, ammetto che

co vorrebbe una discussione piu grossa, a Milano e altrove).

Antonio Caronia, Agosto 1980.

PREMESSA UAUIO Sono passati quarant'anni e nel mentre scrivo questa premessa al nuovo numero di Un’Ambigua Utopia, il n°10 (l'ultimo è uscito nel 1982 come catalogo della mostra convegno Il gatto del Cheshire) ancora non so se quell’intestazione, che dovrebbe esplicare i contenuti, l'indirizzo, il programma della rivista ci sarà e, eventualmente, quale sarà. Se la fantascienza ci stava stretta allora, ancor più oggi, che come genere ha finito la sua ragione d’essere. Ma per contro gli elementi che la costituivano sono più vivi che mai e fanno parte del nostro quotidiano, sono elementi del reale e come tali vanno trattati. Più che immaginare il futuro oggi, forse, sarebbe necessario immaginare il passato, in quei punti e nodi in cui il possibile avrebbe potuto prendere il posto del plausibile. Gli anni Settanta del secolo scorso sono stati quel coacervo di esperienze che avrebbero voluto, per dirla con Primo Moroni, “anticipare il piano del capitale” e prenderlo in contropiede nel suo processo di trasformazione. Non ci siamo riusciti ma possiamo ripartire da se smettiamo di “scommettere su una soggettività forte e rivoluzionaria” e a non aver “paura di morire un’altra volta di sé, della provvisoria identità precedente, eppure conquistata con grande fatica, per rinascere non tanto più forti quanto più complessi, quanto più disponibili e dotati di tante vite e non di una sola appartenenza.” In quel giacimento di esperienze passate, il cui filone aurifero principale è andato esaurito “nelle vene parallele vi sono molti materiali assai preziosi che sono

stati trascurati e altri, chissà dove, impareggiabilmente

più preziosi.” E forse uno di quest'ultimi potrebbe

proprio essere Un'Ambigua Utopia, quella breve e piccola esperienza di cui Antonio Caronia ha saputo non far perderne la memoria narrandone la storia nel corso delle sue lezioni e riassumendone le vicende in varie interviste.

Oggi rinasce con questo decimo numero a cui potranno seguire numerosi altri oppure nessuno. Comunque questa vecchia esperienza ha raggruppato intorno a giovani compagne e compagni che hanno già prodotto un prezioso lavoro di digitalizzazione (pubblico) di tutti i numeri della rivista, oltre a una serie di iniziative per Primo Moroni e Antonio Caronia alla Fondazione Mudima e una programmazione di incontri sulla Fine dell'Uomo al centro sociale Piano Terra.

Da vecchio superstite, non pentito ma neanche nostalgico di quei “formidabili anni”, insieme alla mia compagna Marisa Bello li guardiamo e li aiutiamo per quel che le nostre piccole ed esigue forze rimanenti ci permettono. Antonio Caronia, se fosse ancora qui con noi, raccoglierebbe sicuramente questa sfida perché, come scrisse in una dedica a Marisa su una copia dei Labirinti della fantascienza:

“Sai che niente esiste naturalmente? Sai che ogni cosa che esiste esiste solo in virtù di una sfida che ad essa è

lanciata, e a cui essa è obbligata a rispondere?”

Insieme, ancora...e poi ancora proveremo a rispondere.

Giuliano Spagnul

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UAU 10

PREMESSA Piano Terra è un centro sociale all'ombra dei grattacieli alberati di Boeri e di fronte alla sede di Google nel quartiere Isola di Milano; insomma nel bel mezzo di quel processo di gentrificazione a macchie di leopardo che tende, sempre più, a metastatizzare quella parte di metropoli inscritta nel circolo più esterno della città, quella linea di frontiera percorsa dalla filovia 90/91.

È qui, in questo luogo resistente, che nella prima parte di quest'anno si sono svolti una serie di incontri dedicati a “La Fine dell'Uomo”. Con l’uscita di questo nuovo numero di “Un’Ambigua Utopia” abbiamo voluto porre una serie di domande ad alcuni dei relatori: ROBERTO PAURA (presidente dell’Italian Institute for the Future), DOMENICO GALLO (lettore e scrittore di SF), GIORGIO GRIZIOTTI (operaio biocognitivo),

e infine EMANUELE LEONARDI (Centro de Estudos Sociais Universidade de Coimbra) che ha coinvolto i colleghi SALVO TORRE (Università di Catania), ALICE DAL GOBBO (Università di Trento) e MAURA BENEGIAMO (Collège d’études Mondiale FMSH).

Sette domande e sette risposte che si aprono su uno scenario di crisi, la crisi dell'uomo occidentale e del sistema capitalistico nel pieno della sua potenza creativa quanto distruttiva. Un evo moderno che si vuole morto ma il cui cordoglio non riesce a farcene superare il lutto. Ancora invischiati in una palude che, a tratti, ci appare come definitiva, rischiamo di non riuscire a liberare ciò che di fecondo è dentro ad ogni crisi: la capacità/necessità di mutare, di divenire altro da ciò che si è, da quel sempre uguale che è la mortifera pulsione al non cambiamento che impedisce alla vita di vivere.

La natura, più che essere al centro di queste domande, è la cornice; è possibile ancora oggettivarla, ritrovare la sua rassicurante datità? Oppure parlando di natura parliamo sempre, e solo, di noi? Facile dire, facile constatare che quella separazione tra natura e cultura che ha fondato la civiltà moderna in questi ultimi secoli non ha più ragioni valide per essere sostenuta (per l'impatto evidente ormai a tutti dell'uomo con l’ambiente,

per l’ibridazione con ciò che definiamo artificiale, e altro

ancora). Difficile è pensarlo realmente. Arduo e spaesante (quindi fonte d’angoscia) sostenere le conseguenze che una simile rivoluzione del nostro modo di rapportarci

al mondo, alla realtà di tutti i giorni, dei significati che diamo, dobbiamo dare, alle nostre pratiche, ai nostri gesti, alle nostre parole. Il ventaglio, variegato, spesso dissonante, delle risposte che seguono non risolvono ma arricchiscono la problematizzazione di ciò che noi tutti, in questo momento, ci troviamo ad affrontare: la fine di un uomo che, senza averne piena coscienza, è già finito da tempo

senza sapere ancora cosa sta diventando.

Le registrazioni degli incontri de “La Fine dell'Uomo”:

13.01.2019

Evoluzione e catastrofe

con Roberto Paura

10.02.2019 La disneyficazione del reale

con Clara Zanardi

10.03.2019 Antropocene o capitalocene

con Emanuele Leonardi

14.04.2019 Autodistruzione nucleare

con Domenico Gallo

12.05.2019

Il neurocapitalismo ed i dispositivi del tempo

con Giorgio Griziotti

7 DOMANDE SULLA FINE DELL'UOMO

Roberto Paura

01 L'evoluzione umana ha qualcosa che la contraddistingue, in modo sostanziale, da quella di altri esseri viventi? E se sì, questa particolare evoluzione umana potrebbe emanciparci definitivamente dalla

natura?

RP_ Senza dubbio la capacità di intervenire sui processi evolutivi. Una volta compresi questi processi, modificarli è solo questione di tempo, tecnica e volontà. In tal caso si passerebbe da un’evoluzione casuale a un'evoluzione autodiretta, con finalità precise definite dalla nostra stessa specie. Questo è lo scenario del postumano, che appunto implica l'esigenza di emanciparsi dal determinismo della natura e trasformare l'essere umano in qualcosa di diverso, ovviamente “migliore”. Negli scenari più radicali del transumanesimo, l’obiettivo sarebbe quello di “liberare” l'Uomo dal suo corpo biologico e trasferire la coscienza in un ambiente virtuale, che giri all’interno di supporti hardware messi in sicurezza, magari in orbita o in generale nello Spazio, cosicché la nostra esistenza non dipenderà più da fenomeni di tipo biologico (resterebbero fattori di tipo fisico, ma quelli paradossalmente sono più controllabili e

manipolabili).

02 Gli artefatti, gli oggetti sempre più sofisticati e intelligenti costruiti dall'uomo, rendono il mondo in cui viviamo più o meno estraneo a noi? La loro crescente mancanza di passività (quella che eravamo abituati a considerare come intrinseca inerzia) potrebbe costituire

una minaccia alla nostra esistenza?

RP_ Finché era possibile capire, ricostruire, smontare, rimontare gli oggetti costruiti da altri, gli oggetti non rappresentavano qualcosa di estraneo, anzi contribuivano alla nostra identità individuale e collettiva. La deriva della contemporaneità consiste nell’impiego quotidiano di oggetti che ci appaiono del tutto misteriosi nel funzionamento, il cui sapere esperto dietro la costruzione

è riservato a poche persone. Esistono anche situazioni,

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come particolari algoritmi e simulazioni informatiche, creati per agire in modo indipendente dalla programmazione, cosicché sono destinati a sfuggire alla comprensione dei loro stessi creatori. Tutto ciò ci sempre più l’idea di un mondo che non controlliamo, che agisce in modo autonomo dalla nostra volontà: è il “terreno di coltura” dell’idea (forse del mito) dell’intelligenza artificiale forte o generale, un'lA autonoma dalla programmazione in grado in prospettiva

di superare l’intelligenza umana e assumere un’agency

del tutto autonoma. Sappiamo che le specie sono sempre in competizione per le risorse: una nuova specie, seppur artificiale, se davvero autonoma, rappresenterebbe ovviamente una minaccia esistenziale per la nostra

sopravvivenza.

03 In questo nuovo secolo il nucleare ha perso il suo primato di minaccia apocalittica, scalzato dall’incubo del riscaldamento climatico. È pensabile che nel prossimo futuro ci si possa abituare e considerare anche quest’ultimo come qualcosa con cui poter comunque

convivere?

RP_ Senza dubbio. Così come non siamo riusciti a realizzare il sogno (l'utopia?) di un disarmo nucleare completo, ma riusciamo a convivere con l’idea che esistano migliaia di bombe atomiche in grado, volendo, di spazzare via la nostra civiltà dalla faccia del pianeta in poco tempo, analogamente impareremo a convivere con una biosfera trasformata dal cambiamento climatico. D'altra parte, così come era impensabile immaginare la sopravvivenza della civiltà in un mondo post-atomico, così è impensabile credere che l'umanità possa adattarsi a vivere in un mondo post-catastrofe climatica. La biosfera sta già cambiando in modo radicale: il nostro obiettivo è rallentare o fermare questo processo e adattarci ai cambiamenti prima della catastrofe. L’Orologio dell’Apocalisse, che una volta segnava i minuti che ci separano dalla mezzanotte del mondo dovuta a una catastrofe nucleare, ora segnano i minuti che ci separano dalla catastrofe climatica. Ancora una volta, comunque, si tratta di fenomeni prodotti dall’Uomo che

possono essere controllati e contenuti. 04 La fine delle utopie, che ha segnato la storia del secolo appena trascorso, ci costringe a cercarne comunque di nuove

o a rinunciare definitivamente all’idea stessa di utopia?

RP_ Le utopie stanno, anzi, vivendo una nuova età

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dell'oro. Dal passato abbiamo imparato quanto possa essere rischioso provare a creare una società veramente utopica, abbiamo compreso il carattere ambiguo dell'utopia, che

già la Repubblica di Platone presentava in nuce e che poi ha trovato sbocco negli incubi totalitari del Novecento. Oggi diversi sociologi che si occupano anche di studi

sul futuro hanno recuperato questo termine parlando di “utopie reali” (Erik Olin Wright), “utopie concrete” (tra i tanti, Paolo Jedlowski), “utopie pragmatiche” (Roberto

Poli) sostenendo che le utopie ci occorrono per dare un orizzonte nuovo, radicalmente diverso, al nostro cammino verso il futuro, e orientare di conseguenza la nostra azione. Tra le nuove utopie emerse negli ultimi anni penso per esempio all’accelerazionismo, alla panarchia, allo stesso transumanesimo. Alcune di queste idee influenzeranno (se

non lo stanno già facendo) l’azione sociale e politica.

05 Lo sfruttamento delle risorse del pianeta da parte dell’uomo è oggi insostenibile comunque o può essere

ripensato in termini razionali? A quale prezzo?

RP La futurologia ha affrontato questo problema in due modi diversi: sostenendo da un lato l’esistenza di limiti inderogabili alla crescita continua, a partire dal lavoro del Club di Roma alla fine degli anni Sessanta, da cui poi sono nati i temi dell’ambientalismo, dello sviluppo sostenibile e più recentemente l'utopia (un’altra!) della decrescita “felice”; e dall'altro riponendo fede nella capacità della tecnologia di superare questi limiti, fino alla possibilità di impiegare le risorse fuori dalla Terra (presenti negli asteroidi, sulla Luna e infine colonizzando altri corpi celesti).

Tra queste due concezioni c’è la realtà, in cui effettivamente innovazioni tecnologiche hanno spostato in avanti previsioni come quelle sul “picco di Hubbert” (l’inizio del declino delle riserve di petrolio), ma finendo per continuare ad alimentare un sistema quello del

capitalismo “predatorio” insostenibile per la biosfera.

06 Il sapere occidentale si è costituito all’interno di una struttura che vede un soggetto che percepisce un oggetto, in un rapporto privo di reciprocità. Oggi con l’emergenza ecologica, così come con l’insorgere dell’intelligenza artificiale o la costante ibridazione tra artificiale e naturale, questo rapporto è messo in crisi. È una crisi che potrebbe sovvertire completamente quel modello del sapere che ha permesso quelle sfide della

modernità che hanno reso possibile la globalizzazione?

RP_ Senza dubbio. In un lungo articolo che è stato tradotto in italiano sulla rivista che curo, “Futuri”, il presidente della World Futures Studies Federation, Erik Overland, che è anche un filosofo, sostiene proprio che il problema della post-modernità derivi dall’abbattimento della divisione tra soggetto e oggetto, tra Uomo e Natura. A suo dire, dovremmo abbandonare i paradigmi e i sogni di una “ibridazione” a favore di un ritorno a una soggettività che continui a definirsi sempre in relazione a un’alterità oggettiva, il “Îmondo”. Altrimenti rischiamo di non uscirne più. È una riflessione che mi trova d'accordo, anche perché al mondo, alla Natura, bisogna riconoscere, se non una soggettività, sicuramente un “diritto all'esistenza”

indipendente da noi.

07 La progressiva messa a valore di ogni tipo di tempo, non più distinguibile tra lavorativo e dopo lavorativo, feriale e festivo, sacro e profano, fino all’ultima distinzione tra veglia e sonno, rende ancora possibile una qualche esperienza individuale o collettiva che possa collocarsi all’interno di una propria specifica modalità del tempo? Un tempo alternativo al tempo dominante,

istituzionalizzato?

RP_ Nel suo libro Cronofagia, Davide Mazzocco sostiene l'esigenza di tornare a modelli come la banca del tempo e in generale all'economia circolare, che rompano il paradigma di un tempo costantemente rivolto all’accumulazione, al progresso unilineare. Una volta sarebbe bastato ridurre le ore di lavoro: oggi sappiamo che a una riduzione dell’orario di lavoro non si verifica una riduzione del meccanismo di estrazione di valore dal tempo (più o meno libero) delle persone. Un tempo alternativo al tempo dominante difficilmente può realizzarsi all’interno di una società come la nostra. Il primo passo può senz'altro essere quello di restituire senso al tempo al di fuori del lavoro che oggi spesso occupa l’intera quotidianità, soprattutto nel freelance svincolando il reddito dal lavoro. Il secondo passo dovrebbe essere quello di costruire nuove comunità nelle quali sperimentare modelli innovativi di convivenza sociale, alternativi all'’atomizzazione estrema dell’individualismo contemporaneo. Sono due premesse a mio parere imprescindibili, se non per un tempo “alternativo”, sicuramente per un futuro alternativo al

paradigma egemonico.

7 DOMANDE SULLA FINE DELL'UOMO

Domenico Gallo

01 L'evoluzione umana ha qualcosa che la contraddistingue, in modo sostanziale, da quella di altri esseri viventi? E se sì, questa particolare evoluzione umana potrebbe emanciparci definitivamente dalla

natura?

DG Ciòche distingue l'aspetto evolutivo di homo sapiens dalle altre specie animale è che, da un certo punto della storia in avanti, oltre a i meccanismi evolutivi su base genetica che condividiamo con gli altri (basati sui meccanismi di mutazione/selezione), l'abbiamo integrato con l’evoluzione culturale. Prendo questo concetto dal grande genetista di Stanford, Luigi Luca Cavalli Sforza, quando nel suo volume L'evoluzione della cultura, spiega come l'accumulo di conoscenze acquisito da una generazione possa trasmettersi alla successiva, creando conoscenze sempre maggiori, e che, tra le varie società umane ci siano stati scontri anche supportati da un maggior contenuto culturale che hanno consentito di far sopravvivere società con maggiori conoscenze (militari, alimentari, mediche, etc.). Ovviamente questo diventa possibile con lo svilupparsi del linguaggio, e si è intensificato con la conoscenza della scrittura (circa 5000 anni fa), migliorando i meccanismi di accumulo e trasmissione della conoscenza. Un esempio davvero calzante, e probabilmente non archeologicamente corretto, lo dobbiamo a Stanley Kubrick quando, all’inizio del film 2001 Odissea nello spazio, vediamo descritta l’alba dell'uomo, ovvero il momento in cui una scimmia impugna un osso e ne riprogetta l’utilizzo, inventando la mazza. Questo è il momento in cui nasce l’uomo, quando la scimmia utilizza un elemento dell'ambiente per estendere e potenziare le proprie capacità, aumentando la probabilità di sopravvivere (vincere gli scontri diretti, cacciare più efficacemente). In questo senso siamo diventati sapiens nel momento stesso in cui abbiamo iniziato a emanciparci dalla natura, un lungo processo che

coerentemente è giunto fino a oggi.

02 Gli artefatti, gli oggetti sempre più sofisticati e

intelligenti costruiti dall'uomo, rendono il mondo in cui viviamo più o meno estraneo a noi? La loro crescente mancanza di passività (quella che eravamo abituati a considerare come intrinseca inerzia) potrebbe costituire

una minaccia alla nostra esistenza?

DG Come ha dimostrato Darwin, chi ha maggiore capacità riproduttiva ed è capace di impestare i dintorni con il proprio DNA una nuova generazione di individui vince. La teoria del gene che si comporta come se fosse egoista di Richard Dawkins è piuttosto nota. Quindi se le macchine sono più adatte di noi all'ambiente in cui viviamo, si sostituiranno ad homo sapiens. Ma, come insegna la fantascienza, la progressiva ibridazione con dispositivi il caso di homo sapiens di oggi) è certo una strada che sarà percorsa, ed è la strada che seguiamo inconsapevolmente dal Neolitico. Marshall McLuhan ha descritto molto bene le modalità con cui avvengono i progressivi incontri con la macchina e l’intrinseca familiarità tra noi e loro. Le tecnologie (lui chiama media tutte le tecnologie, non solo quelle dell’informazione) costituisco una mediazione potenziata del nostro essere verso l’esterno a noi stessi. Leggiamo le metafore narrative della fantascienza a partire dal cyberpunk e potremo riconoscere questo insidioso progresso. Perché insidioso, se nelle macchine non c’è intelligenza e finalità autonome? lo penso, perché non c'è progetto ma ingenuo opportunismo, e per questo minacciano costantemente la base umana. In questo senso Philip K. Dick aveva inquadrato correttamente il problema; l’artificiale è il male. Per lui esiste una dialettica tra umano e artificiale per la quale l’artificiale prova a sostituirsi all’umano, con fini propri e malvagi. Quindi mi sembra, che alla fin fine la storia della nostra civiltà non sia così diversa dal paradigma biologico di continua minaccia e sopraffazione. Un esempio per tutti può essere trovato nell'estremo egoismo dimostrato dalle èlite, gruppi ristretti di famiglie (oggi quasi oscurati dai media) che devastano e uccidono moltitudini di persone per mantenere il proprio status. Ma anche in questo caso la fantascienza ha

ampiamente discusso questa dinamica politica.

03 In questo nuovo secolo il nucleare ha perso il suo primato di minaccia apocalittica, scalzato dall’incubo del riscaldamento climatico. È pensabile che nel prossimo futuro ci si possa abituare e considerare anche quest’ultimo

come qualcosa con cui poter comunque convivere?

UAU 10

DG Sicuramente convivremo. L'incubo nucleare era sicuramente un elemento dell'immaginario novecentesco, era qualcosa di tangibile ed evidente perché era concentrato in pochi luoghi: le centrali e le discariche. Questo perché era legato a cicli produttivi fordisti che richiedevano una specifica filiera del nucleare. Anche le lotte iniziate negli anni Settanta (ricordo le battaglie campali a Montalto di Castro o quelle in Francia che coinvolgevano attivisti di entrambe le nazioni) tentavano di colpire luoghi specifici e dedicati. Oggi l’incubo del riscaldamento climatico si è dispiegato in ogni attività umana, in ogni consumo. In questo senso, stabilita la sua valenza termodinamica, addirittura da fisica classica, ogni azione della civiltà è entropica, ogni singola azione è solo apparentemente innocua. Dal punto di vista politico (e ancora ringraziamo uno stuolo di scrittori di fantascienza della social sf e della new wave) il nostro modo di vedere è passato dalla critica della produzione a quella del consumo. C'era una separazione netta che non criticava la produzione dell’energia in (l'energia forse era vista come “buona”, seguendo anche i canoni del dominante imperativo industrialista marxista), ma il modo di produrre. Il paradosso oggi è che ogni produzione energetica è distruttiva, ogni nostro consumo è micro-distruttivo. Ritornando ai punti precedenti, davvero l’altropocene è uno stadio evolutivo, ma non tanto per l’introduzione di nuovi elementi, ma per l’accumulazione degli effetti evolutivi. Paghiamo, direi, la prima rivoluzione industriale, con il passaggio dalla condizione contadina a quella operaia, che è stata la transizione che ha portato alla differenziazione e specializzazione produttiva, allo svilupparsi di tecnologie di spostamento delle merci, fino alla partecipazione di tutto il pianeta al consumo. Ironicamente, se pensiamo a una visione importante del 1977 (sintetizzabile dallo slogan “vogliamo tutto”), si chiedeva un accesso totale e globale ai consumi e non a una riduzione dei consumi. | movimenti rivoluzionari hanno sempre cercato di far accedere ai consumi coloro che ne erano esclusi, fino al ribaltamento con l’invenzione del consumatore. In questo senso le nostre lotte erano implicitamente anti-ecologiche (anche quando eravamo antinucleari) e non lo sapevamo, 0, almeno, erano ridotte le contestazioni che comprendevano una critica

radicale al progresso.

04 La fine delle utopie, che ha segnato la storia del secolo appena trascorso, ci costringe a cercarne

comunque di nuove o a rinunciare definitivamente all’idea

stessa di utopia?

DG Secrediamo sia vero quanto descritto fino a ora, forse siamo anche convinti che la Natura non esista. Non c'è niente che sia stato creato o che abbia un progetto di ordine superiore. È dunque risibile pensare alla natura come qualcosa di bello o di giusto o di buono o di migliore. Un pianeta Terra devastato da un meteorite (rocce bruciate senza vita) è tanto naturale quanto un immaginabile quadretto alpino con laghi, prati e ghiacciai in lontananza. Anzi, forse il secondo è solo una idealizzazione: il prato è giustamente pieno di mosche e può celare la tana di un serpente, vi albergano le zecche, mentre il lago da vicino si mostra paludoso e brulicante di larve, altrettanto potremmo dire di quella frana di rocce, ghiaccio e ghiaia che è in realtà il ghiacciaio. Questo perché il cobalto, l’uranio e anche il plutonio (in piccola proporzione) sono da ritenersi componenti della natura, e naturale sarebbe la Terra bombardata dalla radiazione cosmica se non avesse l'atmosfera. Quindi la Natura certo non è un buon punto di appoggio, troppo mutevole, fortemente casuale e saldamente basata su principi scomodi come quello dell’entropia e della minima azione. È in questo ambiente che homo sapiens misura i propri egoismi e i propri progetti, che si inventa delle finalità. In questo senso la cultura (nell'accezione di Cavalli Sforza) si esprime nella natura per creare, modulare e crescere dei finalismi. Homo Sapiens quindi si un’etica, stabilisce modi di vivere secondo principi che non vengono dal principio ma sono creati nella storia. È il regno dell’arbitrario, il capitalismo è arbitrario. Può essere forte e violento, vincere ogni confronto, ma non può avocare alcuna naturalità nell’esistere, o avvalersi di una qualche particolare giustizia se non quelle che, per convenienza, si è costruito all’interno delle sue strategie difensive. In questo senso l’egualitarismo, la parità dei diritti, l’equa distribuzione delle risorse non sono naturali e non sono giusti, sono convenienti in particolari situazioni storiche. Per molti di noi, gli ultimi 5.000 anni. E, scusate la lungaggine, l'utopia rimane un progetto che deve essere praticato e ri-praticato perché è un’idea di uomini e donne che non necessita di alcun apporto della natura di come la storia si è sviluppata finora. Materialisticamente la nostra etica e la nostra estetica lo richiedono. La sconfitta delle utopie sarà sempre temporanea, perché l'utopia viene costantemente istigata dalle nostre società inique;

è biologicamente inevitabile. E più l'utopia viene sconfitta, più è desiderata, più rinasce e si ripresenta, attraverso

metamorfosi e mutazioni. Questo perché, e lo scrivono in

7 DOMANDE SULLA FINE DELL'UOMO

molti, da Italo Calvino a Darko Suvin, l'utopia è un processo dinamico che non può fermarsi e deve inevitabilmente contrapporsi a se stessa. Forse il senso del concetto di “un’ambigua utopia” è proprio questo, la capacità dei rivoluzionari di interpretare se stessi una profonda e

continua trasformazione all’interno dell’egualitarismo.

05 Lo sfruttamento delle risorse del pianeta da parte dell’uomo è oggi insostenibile comunque o può essere

ripensato in termini razionali? A quale prezzo?

DG Davvero non lo so. Quando penso all’egualitarismo sociale e a una collettività che garantisca a ognuno, diversamente, i propri bisogni, penso a un'utopia di partenza che debba inevitabilmente pianificare lo sfruttamento delle risorse. Questo, a mio parere, forse implica una pianificazione delle nascite, una modificazione genetica per migliorare la salute e aumentare la durata della vita, eliminare il lavoro umano, avviare programmi di ingegneria planetaria. La fantascienza degli anni Venti e Trenta era ricca di queste aspirazioni sociali che vedevano uno sfruttamento delle macchine a vantaggio dell’uomo. Soprattutto Edward Bellamy, Hugo Gersback e poi molti scrittori tecnocrati, teorizzano una società in cui la pianificazione scientifica si occupa di gestire una società razionalizzata. Per molti, anche in Unione Sovietica, la tecnocrazia è una versione efficace del socialismo, ma è indubbio che, in questo caso i nostri sogni sono anche i nostri incubi. Un film come Zardoz, diretto nel 1974 da John Boorman, comunica ancora oggi l'ambiguità di un progresso scientifico che difficilmente è in mano alla collettività e che, come nel mondo odierno, consente alle élite di perpetrare i loro crimini nei confronti della civiltà. E ancora un autore come John Brunner ci aiuta a leggere, già a partire dagli anni Sessanta (Tutti a Zanzibar, Il gregge alza la testa e l'orbita spezzata) come il livello estremo di frustrazione, alienazione e sfruttamento forse spingono alla ribellione ma non lasciano intravvedere spunti di pianificazione di una società più giusta. Quindi sempre e comunque delle ambiguità, come era stato per l’errare di Shevek tra Annares e Urras nel libro di Ursula Le Guin, un errare che non è solo spaziale (0 spazio-temporale), ma tra le idee e le diverse

forme del socialismo. 06 Il sapere occidentale si è costituito all’interno

di una struttura che vede un soggetto che percepisce

un oggetto, in un rapporto privo di reciprocità. Oggi

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con l'emergenza ecologica, così come con l’insorgere dell’intelligenza artificiale o la costante ibridazione tra artificiale e naturale, questo rapporto è messo in crisi. È una crisi che potrebbe sovvertire completamente quel modello del sapere che ha permesso quelle sfide della

modernità che hanno reso possibile la globalizzazione?

DG Da quando ho letto l’ultimo libro di Enrico Bellone, Qualcosa fuori, ho molto cambiato la mia concezione di soggetto che percepisce l'oggetto, tanto quello che noi chiamiamo realtà dipende fortemente dalle caratteristiche dei nostri sistemi sensoriali e di capacità di elaborazione dei segnali. È quindi biologicamente una realtà “nostra”, segnata dalle caratteristiche dei nostri apparati. Ma la domanda certo fa riferimento ancora a una percezione che è culturale, e quindi evoluzione generazionale dei modelli di pensiero.

Se Enrico Bellone, nella sua ricerca, era progressivamente sprofondato verso la fisica dei processi biologici di base, giungendo a una inafferrabile indeterminatezza, Antonio Caronia era partito dalle figure paradosso della letteratura fantastica per finire alle ambiguità del linguaggio. Ho ascoltato entrambi, per anni, mentre la loro ricerca si spostava verso basi più solide, ho letto i loro libri, ogni volta, e ogni volta a un aumento della comprensione corrispondeva lo sgretolamento di un'ipotesi, l’inficiarsi di un punto fermo. Entrambi praticavano un rigoroso, quanto spontaneo, falsificazionismo, ma senza la boria popperiana. Cercando di proseguire un approccio del genere, posso dire che filoni come l’Internet delle cose o la creazione di sistemi Al si sono già molto diffusi. Quando parliamo di realtà aumentata, andiamo proprio verso i temi del libro di Bellone, verso una realtà più ampia di quella a cui siamo abituati. Gli oggetti prendono vita e reagiscono,

i sistemi ci parlano e ci consigliano, ci offrono affetto

e ci fanno compagnia, forse un giorno ci ammoniranno

e ci puniranno. Antonio Caronia aveva immediatamente colto, leggendo libri di fantascienza, che le tecnologie, da sempre presenti nella storia umana, si stavano avvicinando al corpo biologico per entrare in contatto e modificarlo. Questo sfumarsi del confine tra interno ed esterno, lo shock dell'invasione di tecnologie che entrano (Tetsuo, tra tutti), ma anche l’ebbrezza di una percezione che, attraverso

le reti, ci consentono di vedere, udire, parlare e agire in prospettiva globale sono i sentimenti contrastanti delle persone di oggi e di domani. Una nuova estetica, una nuova

arte, ma anche nuovi rapporti sociali e nuove tecniche di

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sfruttamento sono in agguato. Già oggi le proviamo.

07 La progressiva messa a valore di ogni tipo di tempo, non più distinguibile tra lavorativo e dopo lavorativo, feriale e festivo, sacro e profano, fino all’ultima distinzione tra veglia e sonno, rende ancora possibile una qualche esperienza individuale o collettiva che possa collocarsi all’interno di una propria specifica modalità del tempo? Un tempo alternativo

al tempo dominante, istituzionalizzato?

DG A metà dell'Ottocento nasce una lotta mondiale (almeno in quello che noi chiamiamo Occidente) che stabiliva “8 ore per lavorare, otto ore per dormire e 8 ore per lo svago”. Erano i tempi della Prima Internazionale e il tempo era già un elemento fondamentale per mettere in stretto rapporto lo sfruttamento del lavoro con la biologia e con la cultura. La campagna fu portata avanti con scioperi, attentati, rivolte e stragi (Come accadde a Chicago con l’assassinio di cinque sindacalisti) ed era un’innovativa ricerca di un equilibrio tra la forza e la violenza del padronato e progressiva coscienza della classe operaia. Come scrive Antonio Caronia nell’ultima edizione de Il cyborg, l'avvento del paradigma postfordista, con

il suo contatto estremo tra corpo umano e macchina, costringe

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gli individui a produrre in ogni momento di veglia e, almeno così ci avverte la fantascienza, di sonno. L'accordo delle otto ore sul tempo da concedere allo sfruttamento è dunque durato poco, inventando nuove forme di flessibilità che hanno proprio alla base le tecnologie innovative della comunicazione e la loro connessione capillare. Dall’home bankig al telelavoro, alla connessione continua via cellulare fino alle applicazioni web, all'evoluzione delle interfacce e dei sistemi di autenticazione, il capitale ha attivato sistemi di sfruttamento e recupero di profitto che sono attivi in qualunque ora del giorno, nei feriali e nei festivi. Il tempo istituzionale è dunque tutto il tempo della vita, un tempo occupato militarmente dal lavoro. Come si fa a fermare il tempo del lavoro? | nostri nonni e bisnonni distruggevano gli impianti, usavano il sabotaggio, chiavi inglesi negli ingranaggi e corto circuiti, ma la geografia dei luoghi produttivi era diversa, oggi si è globalizzata spezzando i confini nazionali e gli impianti e gli attrezzi, come nel medioevo, sono spesso di proprietà dei lavoratori (cellulari, scooter, applicazioni web). Dunque deve avviarsi una ricerca collettiva di nuove forme di sabotaggio globale, rispondendo al postfordismo della produzione de localizzata e temporanea con un postfordismo

delle lotte. Lotte per la riappropriazione del tempo.

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7 DOMANDE SULLA FINE DELL'UOMO

Emanuele Leonardi, Salvo Torre,

Alice Dal Gobbo, Maura Benegiamo

01 Ll’evoluzione umana ha qualcosa che la contraddistingue, in modo sostanziale, da quella di altri esseri viventi? E se sì, questa particolare evoluzione umana potrebbe emanciparci definitivamente dalla

natura?

ST_ L'idea di evoluzione ha contribuito a determinare la storia degli ultimi secoli, si è trovata uno spazio fondamentale nella tradizione occidentale ed è servita a giustificare aspetti centrali del dominio coloniale e patriarcale. Rimane evidentemente ancora una categoria politica, più che un termine prettamente specialistico, che ha un grande ruolo nella definizione del nostro mondo, così come la sua critica rimane essenziale per costruire un'alternativa. Ciò perché il “farsi universale” di Da Vinci, la “facile cosa” che può realizzare chiunque studi l'anatomia degli altri esseri viventi scoprendo la stretta parentela che abbiamo, è l’espressione della consapevolezza di appartenere al complesso della vita, di essere inseriti in un contesto che non è separato per struttura per modalità di funzionamento. Si tratta quindi di un’idea che esiste già all'origine della modernità, quella cioè che l'evoluzione sia un processo frutto di relazioni, non di percorsi separati tra le specie.

La stessa idea che esista una frattura con la natura è un costrutto culturale che si è collocato a fondamento della modernità. Bisognerebbe dunque sottolineare più spesso che la natura non esiste, è una categoria astratta costruita per facilitare la nostra appropriazione del mondo. Non esiste quel luogo mitico esterno alla città, fuori dalle leggi, in cui un ambiente selvaggio e ostile va riordinato secondo i principi della razionalità occidentale; soprattutto le regole di funzionamento dei sistemi viventi non sono quelle descritte dalla tradizione europea, basate su violenza, sopraffazione e forza fisica individuale, ma seguono un principio di cooperazione che privilegia le comunità non gli individui. Eppure la ricerca di emancipazione dalla natura è stata uno dei grandi temi della tradizione moderna a partire

già dalle sue origini e ha sostenuto parecchio la produzione

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intellettuale e anche la ricerca di alternative sociali, basti pensare al primo socialismo ottocentesco.

In questo contesto la categoria di evoluzione ha assunto un tratto di riflessione genealogica, di liberazione progressiva, che non ha alcuna validità storica. Gli ormai classici studi di Jacques Monod hanno dimostrato, ad esempio, come l’evoluzione non proceda seguendo un percorso lineare, dalle forme primitive a quelle più avanzate con una sostituzione di specie, ma si articoli in una somma di casualità e necessità. Alcuni elementi si rivelano essenziali in modo del tutto casuale e diventano determinanti per la sopravvivenza di una specie; successivamente la trasmissione genetica di quelle caratteristiche diventa una necessità. Il mutamento degli esseri umani non si è sottratto a questo principio, ha aggiunto a questo quadro l'elaborazione culturale. Sicuramente un nostro tratto distintivo è l'evoluzione esosomatica, la capacità unica della nostra specie di affinare strumenti esterni in grado di compensare le carenze strutturali. Questo ci ha concesso di superare molti limiti e di mantenere un’omogeneità di specie che sembra unica nella storia della biosfera planetaria. l’idea che l'identità umana si identifichi con lo sviluppo esosomatico più che con l’organizzazione sociale è però affascinante sotto vari punti di vista, anche perché porta ad una definizione totalmente diversa, rispetto a quella più diffusa, della tecnica e di quale sia stato l'apporto che ha dato alla nostra storia. Significa che è vero che la modernità è il risultato di un grande mutamento nei rapporti sociali di produzione non dell’introduzione di tecnologie avanzate, ma anche che lo sviluppo di tecnologie fa parte della nostra identità, non può essere separato dalla storia della società dalla sua ecologia. Rimane infine la nostra specifica modalità di produzione del pensiero, si tratta anche della risposta che in termini molto diversi danno Chomsky e Foucault nel loro dialogo sulla natura umana e che potrebbe essere usata per rispondere alla prima domanda. Per quanto riguarda la seconda, probabilmente non abbiamo bisogno di emanciparci dalla natura, ma al contrario di

liberarci dai sistemi di dominio della nostra società.

02 Gli artefatti, gli oggetti sempre più sofisticati e intelligenti costruiti dall'uomo, rendono il mondo in cui viviamo più o meno estraneo a noi? La loro crescente mancanza di passività (quella che eravamo abituati a considerare come intrinseca inerzia) potrebbe costituire

una minaccia alla nostra esistenza?

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EL Per quanto riguarda il rapporto tra esseri umani e tecnica mi pare condivisibile l'approccio proposto da Bernard Stiegler', secondo il quale la tecnicità è un carattere fondativo dell'umano e non quindi una dimensione esterna che possa rivolgerglisi contro. A un dato regime di tecnicità corrisponde una certa configurazione dei rapporti sociali: lo statuto dell’oggetto è una questione politica più che tecnologica.

Però è vero che l'avvento dell’Antropocene - l'epoca cioè in cui l'apparente trionfo dell’eccezionalismo umano (“siamo forza geologica!”) convive con la massima fragilità dal punto di vista della sopravvivenza della specie homo sapiens sapiens cambia lo scenario. Lo fa attraverso il rapporto costitutivo che lega il dibattito sull’umano- geologico al tema del cambiamento climatico. Tutte le posizioni in campo, infatti, condividono il presupposto che il riscaldamento globale rappresenti non solo l'evento cruciale degli ultimi decenni, ma anche il punto d’ingresso decisivo per l’interpretazione del presente. Benché, infatti, lAntropocene abbracci uno spettro fenomenologico molto ampio, il centro nevralgico della sua struttura concettuale è fornito dal cambiamento climatico. Parlare dell'uno implica che l’altro sia in grado di catalizzare una valida sintesi empirica e normativa dello stato contemporaneo del mondo. Si tratta di una notazione significativa, perché un aspetto frequente delle discussioni sul cambiamento climatico riguarda la supposta incapacità umana di comprenderne natura, sviluppi e pericolosità si pensi per esempio ai residui di negazionismo, all’incertezza delle simulazioni a lungo termine oppure all’incalcolabilità dei danni potenziali.

Da questa prospettiva, Timothy Morton legge il riscaldamento globale come paradigma di una novità, che riguarda la nostra capacità di produrre artefatti, una nuova forma dell'essere che definisce “iper-oggettualità”?: qualcosa che si definisce proprio perché è impossibile comprenderla dall’esterno, a partire da una posizione di esteriorità epistemologica. Il soggetto conoscente non ‘guarda’ gli iper-oggetti, è piuttosto ‘ospitato’ in essi, ad essi forzosamente legato, da essi ‘circondato’: è da questa perturbante internità che ci sforziamo di comprenderli. Morton definisce gli iper-oggetti viscosi ed è molto preciso nello specificare che “tale viscosità è il prodotto diretto del proliferare di informazioni. Quanto più sappiamo a proposito degli iper-oggetti, tanto più ci rendiamo conto che non potremo mai veramente conoscerli. Eppure, per

quanto ci sforziamo di allontanarli, non possiamo separarci

da loro”. Abbiamo sempre più bisogno della scienza climatica per combattere il riscaldamento globale e tuttavia l'eccesso informativo rischia di ridurci all’impotenza.

Per concludere: gli iper-oggetti costituiscono una minaccia alla sopravvivenza di homo sapiens sapiens. Allo stesso tempo, imparare ad abitarli potrebbe significare liberarsi dagli imperativi capitalistici che stanno alla base della crisi ecologica e quindi del proliferare dell’oggettualità non-passiva. Questo significa che solo dei rapporti sociali rivoluzionati potrebbero schiudere un regime di tecnicità simultaneamente efficace nella lotta al cambiamento

climatico e desiderabile dal punto di vista sociale.

03 In questo nuovo secolo il nucleare ha perso il suo primato di minaccia apocalittica, scalzato dall’incubo del riscaldamento climatico. È pensabile che nel prossimo futuro ci si possa abituare e considerare anche quest’ultimo

come qualcosa con cui poter comunque convivere?

MB&ADG Una prima possibile risposta riguarda la chiave di lettura offerta dall’analisi dei regimi di governamentalità associati a queste due minacce, che se da un lato rafforzano e centralizzano il potere e la scienza in chiave anti-democratica, sostenendo l’idea che ogni possibile azione individuale sia futile e che una passiva rassegnazione sia l’unica alternativa, dall’altro contribuiscono attivamente ad occultare e reprimere le diverse forme di protesta sociale che producono.

La minaccia della bomba atomica per esempio non può essere scissa dalla politica dell'equilibrio basata sul terrore portata avanti dalle due principali potenze della Guerra Fredda. In quel contesto la minaccia atomica ha avuto un ruolo chiave di disciplinamento sociale e contestualmente è servita a giustificare l'interferenza delle grandi potenze che promuovevano cambi di regime o finanziavano colpi di stato. La Mutual Assured Destruction dall’acronimo inglese MAD, ha probabilmente evitato lo sganciamento della bomba e contribuito a creare una pace nucleare che ha permesso lo sviluppo delle due superpotenze, mentre attorno scoppiavano conflitti e le sperimentazioni sociali alternative venivano represse nel sangue.

Il nucleare in quanto tecnologia energetica presuppone uno stato forte e centralizzato, un potere che gestisce il territorio considerandolo uno spazio vuoto, disponibile per la sperimentazione, ed esclude la possibilità che le opinioni e i saperi locali intervengano nella valutazione del

rischio. esperienza dei movimenti antinucleari europei ci

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7 DOMANDE SULLA FINE DELL'UOMO

mostra anche come l'imposizione di questa tecnologia si sia accompagnata alla riduzione al silenzio e alla repressione anche violenta di ogni voce di protesta. Gli esempi sono molti, come il caso di Vital Michalon, professoressa di fisica, uccisa a SI anni, il 31 luglio 1977 mentre manifestava, insieme a decine di migliaia di persone, contro il progetto Superphénix, un prototipo sperimentale di centrale nucleare, a Creys-Malville (Isère). Fu colpita da una delle 25,000 granate sparate quel giorno dalle forze di polizia®. Alla metà degli anni Ottanta in Italia il movimento contro

il nucleare subì una dura repressione che riguardò tutte

le forme di espressione del dissenso. Le manifestazioni

di protesta contro la costruzione delle centrali nucleari furono duramente represse, con violente cariche e arresti, come nel caso più eclatante, quello di Montalto di Castro nel 1986. Più recente è invece il caso di Bure* dove la creazione di una ZAD (zone à défendre) nella foresta di Lejuc per contrastare un progetto di discarica di scorie nucleari ha generato una forte repressione militare e giudiziaria da parte dello stato francese.

In continuità con queste esperienze, la crisi climatica va Oggi incontro ad una gestione centralizzata e tecnocratica finalizzata anche a sviare l’attenzione dalle molteplici “apocalissi quotidiane” e dalle lotte e resistenze ambientali che attraversano il nostro presente. Questo passaggio avviene in due modi principali. Da un lato si produce quello che potremmo definire uno slittamento funzionale, dalla questione ecosistemica alla questione climatica. Cioè non è tanto o non più il degrado dei territori, la perdita di biodiversità, l’inquinamento delle falde acquifere, l'esaurimento dei suoli, l’acidificazione degli oceani a rappresentare un problema, ma un indefinito cambiamento climatico. Le prime sono tutti processi affrontabili con una politica del “qui ed ora”, in cui si può rintracciare la causa e persino attribuire responsabilità precise ad imprese, logiche e gruppi politici. Il cambiamento climatico, rappresentato in questo modo, necessita invece dell’azione di un potere globale e tecnocratico, le cui cause sarebbero imputabili a tutti (e alla fine a nessuno) o alla specie umana in generale (come suggerisce l’idea di Antropocene). In questo contesto è stato fatto inoltre notare (vedi per esempio questo articolo di Melinda Cooper®, come la gestione della questione climatica stia assumendo le stesse sembianze di quella della guerra preventiva già adottata dall’amministrazione Bush per la lotta al terrorismo, estesa poi all'insieme delle proteste sociali. La politica della pre-

emption, come è stata nominata, muove infatti dall’idea che

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il futuro sia un insieme di fenomeni imprevedibili e caotici. A differenza delle più classiche strategie di prevenzione, quest'approccio non si preoccupa di controllare tale caos, ma al contrario lo assume e lo concettualizza come l’altro polo della governamentalità. Poiché si può governare solo il caos, ciò significa anche che si può governare solo nel caos. Caos e rischio non sono più qualcosa da evitare, ma la condizione necessaria affinché vi sia governo, essi divengo funzionali all'esercizio del controllo e del potere. Così i tornado, le siccità o le alluvioni sono occasioni per imporre codici, leggi e restrizioni, per intervenire nei territori, modificandone gli assetti spaziali, ambientali e sociali.

Nei casi descritti, la gestione del rischio posticipa in un futuro indefinito l'avvento di potenziali mega-catastrofi e rafforza nel presente l’autorità di un potere che si auto- attribuisce la responsabilità di decidere come queste saranno gestite. Le catastrofi vengono preventivate, mitigate o trasformate nella giustificazione di politiche di controllo, attraverso l’azione di strutture di potere verticali e centralizzate, che trasformano il processo scientifico in gestione tecnocratica del reale. Si tratta tuttavia della tendenziale mistificazione di come nucleare e clima intervengono nella realtà, ovvero non tramite l’irruzione catastrofica, ma per lo più con modalità discontinua e sparsa. Vale la pena allora ricordare l’aneddoto della rana bollita di Noam Chomsky, secondo cui sarebbe più facile cuocere la rana se la si lascia a poco a poco abituare al calore dell’acqua. | cambiamenti che si effettuano in maniera sufficientemente lenta e ripetuta, possono sfuggire alla coscienza finendo per non suscitare nessuna opposizione, nessuna rivolta.

Politica del tempo, materialità della catastrofe, governo del rischio sono tutti elementi che dobbiamo tenere in conto per comprendere questo strano fenomeno secondo cui sarebbe oramai più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. A questo proposito, e per concludere, va detto infatti come la minaccia apocalittica del nucleare e quella del cambiamento climatico siano “figlie” della costituzione energivora dell’accumulazione capitalista. La minaccia nucleare pareva ancora essere più contenuta e contenibile, spostata nel futuro, dipendere da scelte ben precise e definite: detonare o non detonare? Al contrario, il cambiamento climatico è un evento che permea tanto il presente quanto il futuro ed ha a che vedere con dinamiche geopolitiche, ma anche con le più piccole e apparentemente banali azioni della quotidianità. Tuttavia, le

dinamiche e gli effetti di un'era nucleare che non è ancora

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finita si infiltrano nelle maglie della vita di tutti i giorni, nell'evoluzione di specie prima mai conosciute, nei disastri che costituiscono di volta in volta piccole apocalissi per interi ecosistemi. D’altra parte, come abbiamo detto, continuiamo a costruire il cambiamento climatico più o meno come abbiamo fatto per il disastro nucleare: qualcosa a venire, che andrà affrontato in termini di governance,

o che farà soccombere la razza umana (assieme a molti altri esseri viventi). Esse sono in realtà espressioni di un unico complesso, per quanto alle volte, paradossalmente,

il nucleare sia proposto come possibile rimedio al cambiamento climatico. Entrambi sono frutti di quell'epoca che, con Jason Moore, preferiamo chiamare Capitalocene invece che Antropocene: un mondo in cui la biosfera

viene in modo evidente penetrata e costruita da processi, materiali, forme di energia, temporalità che appartengono ad uno specifico modo di produzione - il capitalismo (industriale) per l'appunto.

La domanda allora non è tanto se siamo disposti a convivere con questo o quell’incubo - il riscaldamento climatico o la catastrofe nucleare. La domanda è,

Oggi, se siamo disposti a sopportare ulteriormente un sistema economico basato sul continuo furto di vita, sull’annientamento delle capacità creative del vivente, sulla semplificazione della sua complessità. La questione si sposta: non è tanto con che paura riusciamo a convivere

e fare i conti, o fino a che punto riusciamo ad adattarci a questa o quella condizione avversa. Di fronte all'ennesima minaccia per la sopravvivenza dobbiamo politicizzare il rischio e chiederci fino a che punto pensiamo che la vita sia sacrificabile in nome del profitto. Abituarsi ad una minaccia di morte globale costante equivale a soccombere. Il cambiamento climatico potrebbe essere forse non l'ultima, ma certo una grande occasione, per contestare la

necropolitica del tardo capitalismo.

04 La fine delle utopie, che ha segnato la storia del secolo appena trascorso, ci costringe a cercarne comunque di nuove o a rinunciare definitivamente all’idea

stessa di utopia?

ADG La fine delle utopie segna anche l’esperienza delle società a capitalismo avanzato nei suoi ultimi decenni e poi l'ingresso nel secolo attuale. La scansione temporale non è casuale: va di pari passo con sviluppi storici nell’organizzazione socio-economica e politica

di queste stesse società. | grandi progetti moderni che

si sono realizzati, o sono stati immaginati, dall’inizio del Novecento vivevano di una tensione utopica fortissima, per quanto ora ci appaiano spesso distopici. l'utopia del socialismo ma anche, chiaramente in un modo estremamente diverso, la fede nella Macchina propria del Futurismo, il Walden di B. F. Skinner, finanche l’Utopia libertaria di Nozik, queste narrazioni ci parlano di una spinta materiale, culturale, ma anche in qualche modo affettivo-libidica verso mondi che da un lato potessero realizzare tendenze esistenti, dall’altro le portassero oltre se stesse nella realizzazione di un mondo desiderato, ritenuto, quanto meno in parte, oltre l'esistente. Si tratta di una tensione verso una perfezione quasi impossibile, parzialmente astratta rispetto alle condizioni reali dell’esistenza che ha indubbiamente avuto come condizione di possibilità la spinta propulsiva di una organizzazione politica, socio-ecologica ed economica specifica. Essa pulsava delle potenze energetiche e materiali immesse nel circuito produttivo capitalista attraverso diverse forme di sfruttamento nel Nord del mondo e, soprattutto, attraverso i processi di colonizzazione. Possiamo immaginare quel carattere specifico dell'utopia moderna quella tensione verso un oltre da realizzare e tuttavia irrealizzato senza tale appropriazione planetaria di potenze del vivente negli interessi di un progetto ristretto di controllo del mondo? Questo statuto dell’utopia declina con l'avvento di una specifica fase del capitalismo che vede, da un lato, le maglie del suo agire abbracciare il pianeta intero, e così in qualche modo appiattire su se stessa la tendenza utopica verso un oltre; dall’altro, una crisi epocale che, possiamo dire, ancora segna la costituzione socio-ecologica ed economica del presente. Con la crisi petrolifera degli anni "70 infatti cominciano ad aprirsi, a diventare evidenti, le debolezze e le contraddizioni del capitalismo non solo come sistema economico, ma anche come sistema socio-ecologico. Questo mette in discussione non solo il capitalismo di per sé, ma anche la narrazione moderna che vede la trasformazione sociale e il processo di civilizzazione come un che di lineare e infinito, basato sull’emancipazione dell'essere umano dalla Natura, poiché mette in luce il carattere limitato delle possibilità di controllo. In qualche modo, riporta l'essere umano alla Terra, alla sua relazionalità con essa, al rapporto di immanenza che lo lega alla materialità dell’esistenza e a tutto ciò che di essa non è plasmabile o riducibile a un progetto. La fine dello Sviluppo, nel dibattito di quegli anni, veniva presentata come un

indicatore dell’inizio di una postmodernità in cui le “grandi

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7 DOMANDE SULLA FINE DELL'UOMO

narrazioni”, quindi le utopie unificanti, declinavano.

L’utopia come tensione all’altro è veicolo di immaginazione, di creatività, di produttività: ricerca di un nuovo più desiderabile, più giusto, più felice. l'utopia è anche però spesso una normatività astratta, separata da questo esistente e in quanto tale rischia di imporre ai processi di trasformazione una forma codificata e fissa che può essere annichilente rispetto al dispiegarsi della vita, dei suoi processi socio-ecologici ed affettivi. Il declino dell'utopia dalla fine del Novecento si è accompagnato al declino dei grandi modelli di emancipazione non solo quello comunista, ma anche a ben vedere quello, certo assai meno rivoluzionario, di un capitalismo “buono” che fosse in grado di offrire benessere e felicità generalizzati a patto di potersi “sviluppare”. Da un lato questo ha messo in discussione le visioni totalizzanti su cosa potesse essere uno sviluppo storico univoco, lasciando spazio alle voci e alle esperienze “subalterne”; dall’altro ha determinato un collasso delle visioni radicalmente alternative che hanno caratterizzato le utopie moderne. Venute queste a mancare, si è finiti per accettare che la storia fosse finita, che il capitalismo avesse finalmente trionfato e che perciò fosse legittimo che si manifestasse anche nelle sue forme più violente, più distruttive, dove il divario tra chi si IMpossessa e chi è spossessato (esseri umani, animali, piante, minerali, terre) si amplifica ormai senza limite.

Alla luce della crisi che il sistema sta vivendo, alla luce delle lotte che si intensificano di giorno in giorno per riconquistare questa vita sottratta (sono le lotte ecologiste, quelle indigene/decoloniali, quelle femministe ma anche ogni sfida quotidiana per la salvaguardia degli spazi e dei tempi di esistenza fuori dal mercato, fuori dalla valorizzazione), non possiamo più accettare l'assunto della fine della storia. La storia pulsa (di nuovo) e ancora domanda nuove emancipazioni. È di per se stessa questa una tensione al cambiamento, una tensione verso l’oltre. Tuttavia, proprio perché sono radicate nelle istanze della vita vissuta, nell'esperienza del dolore e anche della gioia, esse non possono articolarsi secondo uno schema esterno, totalizzante, che non faccia i conti con l’irriducibilità del manifestarsi della vita stessa. Sono inoltre istanze molteplici, che trovano comune articolazione nella politicizzazione di ciò che è vivente e nella volontà di sottrarlo ad una valorizzazione annichilente; ma anche non possono e non desiderano costituirsi come blocco omogeneo. In questo contesto l'utopia, se deve o può

rimanere una categoria utile a questi processi rivoluzionari,

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deve cambiare faccia, divenire sinonimo del desiderio di mondi nuovi e non di un Mondo Nuovo, della dinamica e infinita fabulazione del differente, che abbia come unica

ragione di esistere la vita stessa.

05 Lo sfruttamento delle risorse del pianeta da parte dell’uomo è oggi insostenibile comunque o può essere

ripensato in termini razionali? A quale prezzo?

EL Inbuona parte la difficoltà di rispondere a questa domanda dipende dal fatto che contiene l'aggettivo “razionale”. Personalmente non mi crea grandi problemi dell'eredità Illuminista non riuscirei proprio a disfarmi —, ma ne potrebbe porre a chi tentasse di mettere in luce il fatto che la crisi ecologica, il riscaldamento globale o lo stesso Antropocene non si spiegano tanto con gli elementi irrazionali dello sviluppo capitalistico, quanto con il dispiegamento perfettamente riuscito di una certa idea di razionalità. Insomma, dire “ragione” è indicare un campo di battaglia piuttosto ampio e non una definizione condivisa: è bene tenerlo a mente quando si cerca di affrontare un tema spinoso come quello proposto dalla domanda.

Detto ciò, io credo che sia assolutamente possibile coniugare sostenibilità ambientale e giustizia sociale senza “tornare al Medioevo” o addirittura al Neolitico. A patto che si affrontino senza ambiguità alcune questioni scivolose. In primo luogo, chi si appropria delle risorse del pianeta mettendone a rischio la riproduzione (e sfrutta la forza lavoro umana a fini di profitto) non è l'“uomo” genericamente inteso, ma una piccola parte dell'umanità. Si può discutere di quanto piccola sia questa parte (dobbiamo includere o meno le classi lavoratrici occidentali? Se sì, quanta responsabilità è giusto attribuirgli, dal momento che non spetta a loro decidere la composizione sia qualitativa sia tecnologica della produzione?), ma non c'è dubbio che sia minoranza. È dunque da accettare e rilanciare la proposta interpretativa di Stefania Barca®: “il cambiamento climatico è la manifestazione più evidente della diseguaglianza sociale ed economica su scala globale”.

In secondo luogo bisogna prendere atto che la concezione social-democratica della giustizia sociale il cosiddetto patto fordista: potere capitalistico sulla produzione in cambio di inclusione sociale per mezzo di welfare e accesso ai consumi ha solo prodotto la crisi ecologica poiché aveva come condizione di possibilità un impatto ambientale insostenibile. Certo, a questo

compromesso va affiancata la Dottrina Truman - cioè l’idea

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che i Paesi “sviluppati” dovessero fungere da modello per quelli “sottosviluppati” —, ma ciò non cambia la sostanza: storicamente i tentativi di ridurre la diseguaglianza hanno comportato un aumento dell'impatto ambientale, non

una sua diminuzione. La fase neoliberale, poi, avrebbe dichiarato illegittima ogni politica di protezione sociale, scommettendo su una sorta di effetto-sgocciolamento verde: il cuore della green economy, infatti, è che l’auto- regolazione di mercati “maturi” e “consci del rischio ecologico” avrebbe prodotto salubrità ambientale attraverso la polarizzazione di classe. Ci hanno provato, hanno fallito —- sono vent'anni che i meccanismi di Kyoto sono stati implementati, a vari livelli; chi ha voglia di tirare le somme lo può fare senza tema di smentita: viviamo

in una società più ingiusta e più vulnerabile dal punto di vista ecologico. Ora siamo al punto in cui si deve ripensare l'articolazione tra eguaglianza e protezione ambientale: non più proporzionalità inversa ma diretta. Obiettivo ambizioso, inutile girarci attorno, però non vedo molte alternative. Ed è su questo terreno che si gioca tutto il dibattito sul Green New Deal, se lo si pensa come riproposizione schematica di quello roosveltiano, assumendo che gli investimenti verdi possano rilanciare il paradigma della crescita, allora sarà un fallimento annunciato. Se invece assumerà la forma

di una rivendicazione dal basso che implica una radicale redistribuzione della ricchezza non sul medio termine, ma qui e ora, allora le sue potenzialità politiche saranno ben maggiori. Il principio dovrebbe essere quello enunciato dai Giubbetti Gialli in Francia: la transizione ecologica interessa se la pagano i ricchi; se invece la si carica sulle classi lavoratrici e sul ceto medio impoverito è la solita fregatura

e va quindi rigettata senza troppi patemi.

06 Il sapere occidentale si è costituito all’interno di una struttura che vede un soggetto che percepisce un oggetto, in un rapporto privo di reciprocità. Oggi con l’emergenza ecologica, così come con l’insorgere dell’intelligenza artificiale o la costante ibridazione tra artificiale e naturale, questo rapporto è messo in crisi. È una crisi che potrebbe sovvertire completamente quel modello del sapere che ha permesso quelle sfide della

modernità che hanno reso possibile la globalizzazione?

MB Rispondere a questa domanda richiede di tenere in conto due grandi processi. Il primo riguarda lo sviluppo del sapere, in particolare di quel sapere che è il sapere tecno-

scientifico, dell'informatica e della tecnosfera in generale,

e la sua applicazione alle scienze della vita (biologia, chimica dei sistemi biologici, genetica). Il secondo riguarda lo sviluppo del capitalismo, un sistema di organizzazione del mondo che ha permeato in maniera forte la modernità ed il progetto globalista da un lato, ma anche la ricerca scientifica dall'altro. Se l'alleanza tra queste due sfere è sempre esistita, oggi è diventata più stringente. Le tecno- scienze forniscono la grammatica stessa del progetto di governance neoliberista ed aprono al capitalismo la strada verso uno sfruttamento allargato delle forme di vita e dei processi biologici. Ciò però avviene al netto di un mutamento delle forme di rappresentazione dell'umano che implica il superamento progressivo della distinzione tra natura e cultura, naturale e artificiale, materiale ed immateriale (o linguistico). l’idea che la vitalità dei processi naturali si ponga come ostacolo, punto di fuga, “altro” dall’accumulazione pare smentita dalle stesse recenti linee di sviluppo che il capitalismo si è prefissato, in particolare sotto la pressione della crisi ecologica. Due tra le principali “rivoluzioni” tecnologiche del nostro tempo la mappatura del genoma e la scoperta di procedure di coding come il CRISP da un lato e l'intelligenza artificiale dall'altro possono essere, ad esempio, gli strumenti attraverso cui il capitale ha (ri)scoperto che la vita è non solo produttiva, ma può anche essere codificata, scandita ed utilizzata. Proprio in questa razionalità calcolante e strumentale si rivela la continuità della modernità con il presente e si situa la collaborazione tra capitalismo e tecnoscienza. Esiste infatti una omogeneità tra processi di astrazione del valore e processi di astrazione del bios che permette al primo di trasformare la vita in artefatto, in merce, in copyright da scambiare sul mercato. Per capire a fondo la continuità di queste dinamiche è importante anche tenere in considerazione come l’applicazione di tali tecnologie per cui uno dei maggiori terreni di sperimentazione si delinea Oggi nel contesto Africano della Nuova Rivoluzione Verde —, si accompagni ed addirittura rinforzi i vecchi dualismi che hanno reso il progetto coloniale prima, e globale dopo, possibili: quelli di sviluppato/sottosviluppato, di uomo/ donna, di bianco/nero. È qui che la divisone tra oggetto e soggetto, tra artefice della storia e semplice comparsa, si rifonda. È qui che la reciprocità viene di nuovo a mancare. Per comprendere il movente di tali dinamiche, ed insieme la logica della relazione tra scienza e capitalismo, è utile menzionare il testo di James O’Connor “Ecologia e tecnologia” pubblicato nel 1991 nel primo numero della

rivista “Capitalismo, natura, socialismo”. Punto di partenza

I

Un paio di foto scattate da Giuliano che ci piacciono molto e. che pensavamo potessero stare.’

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7 DOMANDE SULLA FINE DELL'UOMO

del saggio è proprio la messa in discussione della tesi illuminista secondo cui scienza e tecnologia sarebbero, assieme alla proprietà privata ed al mercato, garanti di due tipi di libertà “quella dai pericoli delle devastazioni

di una natura sconosciuta e incontrollabile e quella di poter trasformare il mondo in modo razionale, onde assicurare la ricchezza delle nazioni”. Esse permetterebbero insomma il controllo dell’uomo sull'ambiente in cui vive

e l'affrancamento dalle leggi naturali. A questa visione O’Connor contrappone l’idea che, nel contesto delle società capitaliste, scienza e tecnologia siano piuttosto finalizzate a rendere più efficiente il processo produttivo per incrementare il profitto intensificando la produzione e quindi lo sfruttamento, o contraendo i costi umani del lavoro vivo, e quindi creando disoccupazione. Tre sono allora le principali funzioni economiche della tecnologia capitalistica: massimizzare il lavoro, ridurre i costi di estrazione delle materie prime e creare nuovi beni di consumo. Per quel che riguarda la prima funzione, è

bene tenere a mente che il ruolo della tecnologia non si solo nel suo essere uno strumento di produzione in senso tecnico, ma anche e soprattutto come strumento di controllo, disciplinamento o riduzione della forza lavoro. Similmente, nella messa a lavoro della natura e della

vita, che attraversa lo sviluppo tecno-scientifico oggi, è da domandarsi quanto spazio prenda l’antico sogno del capitale di auto-generarsi, facendo a meno della società e del lavoro.

In questo contesto, scrive O'Connor, sposando le tesi di autori quali Adorno, Lukacs, Bloch e Marcuse “la tecnologia capitalista non ha affatto liberato la specie umana dalle forze cieche della natura e dalla necessità del duro lavoro. Al contrario ha distrutto la natura e ha appesantito non reso più leggero —- il fardello dell'umanità”, essa, ovvero, è mutata in strumento di oppressione e repressione, più che di liberazione.

Per concludere, due sono allora i percorsi che si aprono davanti a noi nel contesto dell’attuale sviluppo capitalista. Da un lato quella della progressiva indistinzione tra capitale e natura, con la totale permealizzazione delle logiche del primo nelle logiche del secondo. Indistinzione che si può costruire oggi solo su un numero sempre maggiore di esclusi dai processi di valorizzazione; quest'ultimi, maggiormente interessati all'estrazione del valore dai corpi, dal territorio e dal vivente stanno riducendo la produzione di ricchezza e rendendo inconcepibile il ritorno ad un patto

welfaristico basato sulla piena occupazione e sulla figura

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del cittadino-salariato.

La seconda strada implica invece di essere all'altezza di compiere un progetto umanista che, nelle parole del filosofo post-coloniale Achille Mbembe, consiste nell’aprirsi alla possibilità, sempre già presente, di diventare (un) altro. Come? Jacques Derridà in un testo famoso “L’animal que donc je suis” si rivolge alla figura dell'animale per mettere in questione l’ontologia del’ego sum, del soggetto pensante della filosofia occidentale, la cui storia passa dal cogito ergo sum al je pense kantiano sino al dasein heideggeriano. Secondo il filosofo francese, il soggetto occidentale guarda pensando e non curandosi di essere guardato. Ignorando tale sguardo, lo sguardo dell’altro, l'ego priva l’altro di potere e parola su di lui. La crescente consapevolezza di vivere in un mondo multiagito non basta quindi di per per rompere con la tradizione tecnica dualistica, l’unica strada è pensare la sfida ecologica fuori dal progetto coloniale e patriarcale del dominio e della spartizione del

mondo.

07 La progressiva messa a valore di ogni tipo di tempo, non più distinguibile tra lavorativo e dopo lavorativo, feriale e festivo, sacro e profano, fino all’ultima distinzione tra veglia e sonno, rende ancora possibile una qualche esperienza individuale o collettiva che possa collocarsi all’interno di una propria specifica modalità del tempo? Un tempo alternativo al tempo dominante,

istituzionalizzato?

st _ Il tempo sociale negli ultimi secoli è stato scandito dal tempo di produzione. Si è trattato di una grande rivoluzione che ha portato, lungo la modernità, dalla società descritta da Braudel, in cui il tempo del mercante e quello del contadino non corrispondevano, a quella attuale. La società in cui i due personaggi vivevano insieme, ma con una percezione differente della realtà è scomparsa completamente durante la modernità, così come è cambiato il tempo sociale in sé, la sua percezione e i suoi ritmi. Gli ultimi secoli sono stati scanditi infatti dall’affermazione planetaria di un tempo unico, definito soprattutto come tempo di produzione complessiva, non del lavoro. Un ulteriore salto per la definizione del tempo sociale è stata la conversione della realtà a spazio di mercato, un processo che ha concluso il percorso di appropriazione del mondo da parte del capitalismo. Negli ultimi decenni si sono poi realizzati altri due processi di

enorme portata: è emersa l’idea di un limite temporale

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concreto e si è realizzata la dissoluzione della differenza tra tempo di produzione e tempo libero.

Il primo processo è stato determinato anche dalla percezione della possibilità che la nostra storia abbia un suo limite sociale, prodotto dalle stesse relazioni che la hanno animata. La crisi ecologica globale e la diffusione di narrazioni sulla catastrofe si sono diffuse anche grazie alla percezione del fatto che la struttura dell'economia poteva porre un limite tangibile al tempo della società umana, che tra le conseguenze del funzionamento del sistema poteva esserci anche la crisi planetaria. Il secondo processo riguarda effettivamente la scomparsa della divisione tra tempo di produzione e tempo di vita in favore di un unico tempo di consumo in cui concorriamo a produrre accumulazione in tutte le attività che compiamo. Si tratta di un mutamento che ha anche una sua specifica declinazione ecologica: l'appropriazione del vivente ad un livello più alto ed assoluto, la realizzazione di un mondo totalmente assorbito nel sistema della produzione e accumulazione di capitale in cui i tempi del vivente sono stati piegati e trasformati. Si tratta di un paradosso, ciò che concorre alla dissoluzione della biosfera planetaria è determinante per la stessa definizione dei soggetti che la animano, perché la rete di relazioni che si crea nelle comunità ecologiche è la fonte di regolazione generale dei comportamenti individuali e collettivi. Humberto Maturana e Francisco Varela ci hanno dimostrato cioè che è impossibile scindere i sistemi viventi dal loro comportamento. Questo significa che, al contrario di quanto pensava Heidegger, l'essere e l’agire della biosfera sono inscindibili. La vita è il modo in cui funziona ed è anche il tempo che la regola.

Il problema della produzione di un tempo alternativo è quindi ancora centrale e anzi ricomincia ad essere un nodo di conflitto. Iniziare a sostenere che la fine della nostra società non è un destino ineluttabile aiuta a comprendere quanto sia necessario cambiare. Non si tratta più solamente della prefigurazione del tempo ideale e futuro tipico dei progetti rivoluzionari. AI contrario di quanto sostenuto dal pensiero che è diventato imperante nel tempo di consumo che caratterizza la composizione sociale attuale, le possibilità di liberazione sono molte più di quante se ne potessero ipotizzare, le strade per arrivare alla costruzione di un tempo sociale liberato aumentano anziché diminuire. L'ipotesi di dover liberare in qualche modo il vivente rende addirittura più facile proporre strade e ritmi diversi, studiare alternative, che peraltro sembrano ormai il fulcro

di tutti i conflitti sociali. Riproporre un tempo liberato come

quel tempo in cui si ricrompongono essere ed agire è una delle poche strade che sembrano aprirsi. Un tempo liberato e ricostruito sui ritmi del vivente è l’unica strada possibile

ed è anche un progetto concreto.

1. commonware.org/index.php/ gallery/93-bernard-stiegler-ars- industrialis

2. effimera.org/riscaldamento- globale-ontologia-storia-emanuele- leonardi

3. alternatives-et-autogestion. o0rg/2017/07/31/31-juillet-1977- deces-de-vital-michalon-a-malville- lors-de-la-manifestation-contre- superphenix

4. twitter.com/ZIRAdies

5. journals.sagepub.com/doi/ abs/10.1177/0263276406065121

6. effimera.org/lavoro-e- cambiamento-climatico-verso-una- coscienza-di-classe-ecologica- stefania-barca/

ZII

7 DOMANDE SULLA FINE DELL'UOMO

Giorgio Griziotti

01 L’evoluzione umana ha qualcosa che la contraddistingue, in modo sostanziale, da quella di altri esseri viventi? E se sì, questa particolare evoluzione umana potrebbe

emanciparci definitivamente dalla natura?

GG Ricevendola dalle mani di Prometeo, un loro vecchio alleato, gli umani non immaginavano neanche lontanamente che la technè avrebbe cambiato per sempre la loro vita sulla terra. Non sarebbero più stati obbligati a cercare affannosamente i luoghi magici dove sgorga l’acqua limpida se la si può trasportare e conservare. Nella stagione fredda avrebbero potuto sopperire alla mancanza di luce e calore con “atr” (fuoco) che il titano aveva dato loro, disobbedendo a Zeus. Sarebbero stati dunque meno dipendenti dal caso. La technè li avrebbe fatti entrare pian piano nella spirale di un benessere incomparabile, sostituendosi al precedente mondo, magico e meraviglioso ma al tempo stesso crudele e mortifero. Ma non si resero conto che la technè avrebbe anche ostacolato l’empatia con la natura e rotto l'incantesimo della simbiosi col mondo circostante. Dopo aver preso il potere olimpico per realizzare il suo sogno di sottomettere la vita degli umani, il dio$, sostenuto dai suoi figli, semidei della setta neolib, per prima cosa, mette al bando ogni loro empatia con la natura. In tal modo li rende diversi dagli altri esseri viventi proprio per questa capacità di sfruttare la natura, devastandola e questa è una strana emancipazione un po’ suicida. Obnubilati e sussunti dal dioS gli umani sembrano far finta di non capire che le loro crescenti allergie sono solo un debole sintomo di quella enorme che la natura e Gea, la

terra, stanno sviluppando nei loro confronti.

02 Gli artefatti, gli oggetti sempre più sofisticati e intelligenti costruiti dall'uomo, rendono il mondo in cui viviamo più o meno estraneo a noi? La loro crescente mancanza di passività (quella che eravamo abituati a considerare come intrinseca inerzia) potrebbe

costituire una minaccia alla nostra esistenza?

6G Nonostante la metà divina ereditata dal padre dioS, come tutti i semidei quelli neolib restano mortali. Ciò li infastidisce e li preoccupa assai, spingendoli ad accumulare a dismisura nettare ed ambrosia!. Ma questi cibi danno l'immortalità solo agli dei, mentre agli altri, compresi i semidei, possono dare, al massimo, solo vigore.

Nella ricerca disperata ed affannosa d’eternità i semidei neolib finalmente trovano in una grotta iperconnessa dell’Olimpo una filiale del California Transhumanist Party (CTP). Una consorteria che sviluppa tecnologie Immortatility oriented e Nature immune vendendone a prezzi astronomici licenze d’uso per i pochissimi che se lo possono permettere. Periodicamente, uno dei guru più rinomati del CTP, mr. Ray?, passa a sopravvedere le procedure di mind uploading® a cui certi pezzi da novanta dell’Olimpo si sottomettono. Ovviamente al CTP, che volontariamente confonde libertà con

individualismo, nessuno si chiede se i sofisticati e misteriosi processi di mind uploading

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1. “Nettare ed ambrosia” era diventato un modo di dire dei semidei che gli umani traducevano in potere e denaro.

2. | più smaliziati che pensano

a Ray Kurzweil, direttore dell'innovazione a Google e fervente transumanista, sappiano che questa storia è fantastica

e senza alcun riferimento a persone esistenti o esistite o che esisteranno.

3. “Il trasferimento della mente, mind uploading o emulazione del cervello è l’ipotetico processo del trasferimento o della copia di una mente cosciente da un cervello

a un substrato non biologico.” Wikipedia. it.wikipedia.org/wiki/ Trasferimento_della_mente consultato il 22/08/19.

4. Le gabbie postorgoniche, dette anche anorgoniche, prendono il loro nome dalle scatole o accumulatori orgonici di W. Reich, anche se la loro funzione di industrializzazione dell'orgasmo pare in antitesi con quella originale.

5. Non è un gruppo rock ma uno dei primi team di semidei neoliberisti che il dio$ schiera sul terreno per lavorare con un regime fascista. (i.e. “Il soprannome “Chicago Boys” si riferisce ad un gruppo di economisti cileni degli anni ‘70, formatisi all’Università di Chicago influenzati da Milton Friedman e Arnold Harberger che lavorarono per la dittatura militare cilena guidata dal generale Pinochet.” fr.wikipedia.org/wiki/Chicago_Boys consultato il 23/8/2019)

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“rendano il mondo più o meno estraneo” ai viventi. si chiedono se il trasferimento delle menti “eccelse” dei protetti del dio$ non sia in fondo solo quello che i pionieri informatici del XX secolo designavano in modo lapidario con “garbage in, garbage out”. E in questo senso i dispositivi tecnologici del rito californiano non costituiscono una minaccia, se non quella di fungere da

rivelatori di esistenze-spazzatura.

03 In questo nuovo secolo il nucleare ha perso il suo primato di minaccia apocalittica, scalzato dall’incubo del riscaldamento climatico. È pensabile che nel prossimo futuro ci si possa abituare e considerare anche quest’ultimo come

qualcosa con cui poter comunque convivere?

GG Zeus aveva il fulmine, Vulcano il fuoco, Cronos aveva la potenza del tempo, Gea rappresentava la terra etc. ma anche fra gli Olimpi nessuno aveva “pieni poteri”.

Questa è invece la grande ambizione del dio$. Un dio che odia tutti. Odia anche i suoi figli-profeti, i semidei neolib, ai quali ha assegnato la missione suicida di sfruttare la biosfera sino all'ultimo, facendo accettare agli umani relazioni sociali e condizioni di esistenza sempre più difficili e disagiate. In tal contesto i semidei neolib, benché vivano nel lusso e nell’agiatezza, sono spesso terribilmente stressati: devono continuamente pensare dei dispositivi che facciano ingoiare agli umani la pillola dell’adorazione più o meno forzata del dioS.

La loro più raffinata invenzione è costituita dalla rete di gabbie postorgoniche* in cui negli ultimi 30 anni hanno furtivamente e progressivamente racchiuso gli umani, sfruttando la loro antica propensione per la servitù volontaria. Queste gabbie sono macchine immateriali estremamente sofisticate che si adattano individualmente ad ogni soggettività con la doppia funzione di avvolgerne la sfera percettiva ed emotiva ed estrarne i fluidi vitali

È un trattamento che però non riesce ad impedire lo scatenarsi di crisi fiduciarie sempre più forti. | semidei per evitare che estese e frequenti sommosse degli umani si trasformino in pericolose rivoluzioni non trovano altra parata che tornare ai vecchi amori di un fascismo in versione 2.0.

Il dio$, che non aveva scordato l’esotico idillio cileno dei suoi Chicago Boys® con l’ineffabile e crudele Pinocchietto fascista perfetto, sapeva bene che il fascismo è da sempre un grande fautore di guerra, ed in particolare di guerra alle popolazioni.

In questo senso, ed indipendentemente dall’epoca e dalla versione, la semper vivens minaccia nucleare, civile o militare che sia, ed i processi che portano al riscaldamento climatico sono parte integrante di questa strategia. Entrambi

fanno parte delle possibili catarsi finali che il dio$ prepara per l'umanità. 04 La fine delle utopie, che ha segnato la storia del secolo appena trascorso, ci costringe a cercarne comunque di nuove o a rinunciare

definitivamente all’idea stessa di utopia?

GG Le gabbie postorgoniche sono dotate di griglie incorporee che svolgono le

funzioni essenziali di estrattori dei flussi immateriali in uscita e di filtri ed integratori di

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7 DOMANDE SULLA FINE DELL'UOMO

quelli in entrata. | semidei neolib continuano ad aggiungere griglie spaziotemporali ed algoneurali per aumentare l'efficacia del dispositivo e le loro rendite.

Gli specialisti dei filtri, spesso ex hacker del free software assoldati dai semidei, hanno anche costruito un efficace filtro antiutopia, che, fra l’altro, deforma lo spaziotempo. La percezione dell’immediato non è filtrata e viene amplificata. Tutto è messo in opera perché la vita degli ingabbiati diventi un guardare compulsivo, un binge watching di un reality show competitivo, perverso e spesso crudele. | registi dei film Truman Show? e Dogman' preferirono girare in un reale disneyficato in disfacimento piuttosto che nei set di Hollywood o di Cinecittà giudicati “troppo realistici”; proprio sullo stesso principio i reality show delle gabbie postorgoniche sono sempre più ambientati nei siti dell’iperrealtà neolib: dalle “turistificazioni distopiche nell’intramondo” alle miserie delle favelas metropolitane globali. La sola utopia resta quella di evadere dalle scatole

postorgoniche custodite da robocop in assetto di guerra civile.

05 Lo sfruttamento delle risorse del pianeta da parte dell’uomo è oggi insostenibile comunque o può essere ripensato in termini razionali? A quale

prezzo?

GG Forse c'è un equivoco sulla prima domanda: come abbiamo accennato in precedenza l’attuale strategia di sfruttamento indiscriminato delle risorse del pianeta è interamente pensata dal dio$ e messa in opera dai suoi semidei neolib. Gli umani sono implicati al solito come carne da cannone; anche se alcuni per stupidità o convenienza stanno al gioco. Se i giovani cominciano a protestare, i più sembrano solo rassegnati. Una rassegnazione in cui c’è tutto il peso del Sinistro Fallimento dei loro ripetuti assalti al cielo, dalla Comune di Parigi al lungo 68 italiano, passando per quel fatidico ottobre ’1/ dei 10 giorni che sconvolsero il mondo. Avevano cercato di cavarsela da soli e si erano ribellati agli dei costringendoli a trattare con loro in peer2peer. Poi però gli unici ribelli che non erano stati sconfitti, quelli dell'ottobre, non avevano saputo sottrarsi ai vecchi modi di produzione ed avevano finito con l’imitare i peggiori regimi disciplinari della loro epoca. L’implosione del loro tentativo di scalata al cielo, generata proprio da questa ed altre mancanze strategiche, era stata un elemento decisivo dell’ascesa al Mont Pelerin8 del dioS.

Lo sfruttamento delle risorse è insostenibile perché sottomesso alla razionalità del dio$, ed il prezzo non è misurabile con le verdi immaginette sacre, altrimenti dette dollari, caratterizzate dal suo motto, “in god we trust”. L'impresa immensa di spingere il dio$ in un buco nero sembra sempre meno a portata umana e sempre più un’inesorabile reazione di Gea, decisa a spedire con lui una buona parte se non tutti gli umani e purtroppo di molti altri viventi. Il pianeta, uscito dal Capitalocene, resterà temporaneamente segnato da cicatrici superficiali che ricorderanno agli autostoppisti galattici di passaggio la “fine

dell'uomo”. 06 Il sapere occidentale si è costituito all’interno di una struttura

che vede un soggetto che percepisce un oggetto, in un rapporto privo di

reciprocità. Oggi con l'emergenza ecologica, così come con l’insorgere

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6. The Truman Show è un film del 1998 diretto da Peter Weir su soggetto di Andrew Niccol,

e interpretato da Jim Carrey, ispirato parzialmente a un episodio di “Ai confini della realtà”. Tralasciando i precedentemente prenotati Universal studio'’s,

si decise di girare a Seaside,

una comunità situata in Florida spesso citata come la prima città sviluppata secondo i principi del neourbanesimo.

7. Dogman è un film diretto da Matteo Garrone. La location è la darsena abbandonata del Villaggio Coppola. Una sorta di città fantasma che, nelle intenzioni dei Fratelli Coppola, palazzinari di Casal di Principe, avrebbe dovuto essere una sorta di Rimini del litorale domizio con 8 grattacieli (ne sono stati costruiti tre, poi abbattuti), villette vista mare, un centro commerciale...

8. Il dio$ è salito al Mont Pelerin

nel 1947 per creare il gruppo di riflessione della sua setta neolib, composto da semidei. Fra primi semidei: Friedrich H., Ludwig von M., Milton F. e altri. La setta ha il nome ufficiale di Mont-Pelerin Society e sostiene di difendere valori “liberali” come l’economia di mercato, una società “aperta” e la sedicente “libertà di espressione”.

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0. Il sistema stradale Inca o anche Qhapaq Nan fu il più esteso ed il più avanzato per gli standard dell’epoca in Sudamerica precolombiana; era costituito da circa 40 000 km di strade e permetteva l’accesso ad oltre 3 milioni di chilometri quadrati di territorio. Alcune di queste strade raggiungevano altitudini di oltre 5000 metri sul livello del mare. Il sistema dei messaggeri a staffetta, che si fermavano ad intervalli di

6/9 km, trasportando messaggi ed oggetti quali pesce marino fresco per i re, permetteva a merci e messaggi di coprire una distanza

di 240 km al giorno senza avere a disposizione la ruota o i cavalli.

10. Per esempio le Piramidi d’Egitto vengono costruite quando ancora non erano state scoperte la ruota o la carrucola.

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dell’intelligenza artificiale o la costante ibridazione tra artificiale e naturale, questo rapporto è messo in crisi. È una crisi che potrebbe sovvertire completamente quel modello del sapere che ha permesso quelle sfide della

modernità che hanno reso possibile la globalizzazione?

GG A me non sembra che la crisi del sapere sia solo occidentale. che il rapporto di non reciprocità di soggetto ed oggetto sia inamovibile. La meccanica quantistica, puro prodotto della scuola occidentale, per esempio, rimette in forse questa visione. Le progressive ibridazioni di natura e cultura, vivente e macchina e la pantomima della cosiddetta “intelligenza artificiale”, alimentata dall’estrazione di flussi uscenti dalle gabbie postorgoniche in cui sono rinchiusi quasi tutti gli umani, non sovvertiranno la postmodernità neuroppressiva, la globalizzazione neolib, null’altro fintanto che restano, come sono ora, solidamente sotto il controllo del dio$ e dei suoi adepti. Questi processi sono anzi utilizzati al fine di perennizzare il controllo aldilà della modernità o della globalizzazione.

In un recente passato abbiamo ingenuamente presunto di aver trovato nei dispositivi tecnologici orizzontali ed ibridanti la chiave di un cambiamento del sapere e di una pacifica autonomia ed emancipazione prima di accorgerci, troppo tardi, che il dioS, indisturbato, li avrebbe usati per il nostro ingabbiamento postorgonico. In seguito il dio$ e i semidei neolib, accorgendosi che le gabbie postorgoniche e la technè non potevano garantire la sussunzione irreversibile dell'umano, non hanno esitato a ricorrere alle maniere forti. Di fronte ad un crescendo di ribellioni e sommosse hanno lasciato via libera e favorito l'espandersi del fascismo 2.0. Mentre la parte ancora non completamente asservita degli umani si illudeva di cambiare il mondo agendo ciascuno in modo diffuso ma disperso, senza organizzazione e rivoluzione, il dio$ ed i suoi, fedeli all'antico adagio dello zio Mao, mettevano la politica, la loro cinica politica

suicida, al primo posto.

07 La progressiva messa a valore di ogni tipo di tempo, non più distinguibile tra lavorativo e dopo lavorativo, feriale e festivo, sacro e profano, fino all’ultima distinzione tra veglia e sonno, rende ancora possibile una qualche esperienza individuale o collettiva che possa collocarsi all’interno di una propria specifica modalità del tempo? Un tempo alternativo al tempo

dominante, istituzionalizzato?

GG Le gabbie bioipermediatiche che racchiudono gli umani fanno parte come questi ultimi della megamacchina postorgonica. Entrambi, gabbie ed umani, ne sono gli ingranaggi essenziali: senza gli umani le gabbie postorgoniche sarebbero dispositivi morti, senza gabbie gli umani sarebbero infine liberati da un sistema che li asservisce. La megamacchina postorgonica è l’incarnazione del dio$, ciò che gli permette di esistere. Le megamacchine non sono una novità: esistono sin dagli albori della civilizzazione. Quando ancora non era stata inventata la ruota permettevano di trasportare pesce fresco dal Pacifico alle Ande? o di costruire giganteschi monumenti per i millenni a venire! E poi

vennero le più recenti megamacchine dei complessi militari industriali che erano

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7 DOMANDE SULLA FINE DELL'UOMO

già mondiali come le guerre che produssero.

Mai però questi complessi avevano raggiunto il livello di diffusione e d'integrazione individuale della megamacchina postorgonica che più di tutte le precedenti si rende inevitabile ed indispensabile per la sopravvivenza. L'abilità del dio$ e della sua setta è proprio quella di aver reso (apparentemente?) inestricabili le componenti di controllo individuale e di organizzazione collettiva. La principale funzione delle gabbie postorgoniche è di piegare lo spaziotempo con la finalità d'un assoggettamento individuale e d’un asservimento collettivo (e viceversa). Molte delle megamacchine passate non ignoravano l’importanza della gestione del tempo a fini biopolitici. Le ore canoniche dell’’Ufficio divino”, scansioni rigorose del giorno e della notte nei conventi medievali, sono un archetipo delle susseguenti società disciplinari poi sostituite o affiancate da quelle del controllo, ritmate dal real time network computing. La megamacchina postorgonica, fabbrica dell’intrattenimento emotivo continuo e di brutalità,

è tesa alla gestione globale dei modi e dei tempi sia del controllo che della disciplina, ponendosi al disopra di questa dualità. In ogni gabbia postorgonica

il tempo è la prima dimensione da manipolare, è il primo agente di suddivisione degli umani in dividuali, è il primo vettore d’asservimento del dividuale al suo doppio macchinico plasmato per lui. AI punto da impedire di riconoscere l’origine delle percezioni e di differenziare l'interno e l'esterno.

Man mano che i ritmi della megamacchina condotta dal dio$ ed accoliti si allontanano da quelli naturali di Gea, il tempo di vita dell'avventura umana si

riduce, a meno che...

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UAU 10

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Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi

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IL crollo delle galassie avverrà con la stesso, grandiosa bellezza della creazione.

Blaise Pascal / Werner Herzog, Apocalisse nel deserto (1992)

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DARE FUOCO ALL'UTOPIA

UN OPERAIO SPECIALIZZATO, casco giallo, fissa nell’obiettivo della telecamera: “A me mi piace la libertà. Infatti sono stato io che ho scelto di venire a lavorare qui”. Zoom out: l’operaio si dissolve nel quadro di una piattaforma petrolifera offshore. Partono i titoli di testa de Il... Belpaese di Luciano Salce, una tragicommedia del 1977 che parla del 1977, racconta le lotte studentesche,

il femminismo, l'eroina, gli indiani metropolitani mentre accadono.

L’operaio specializzato è Paolo Villaggio, Belardinelli nel film, 45 anni, all'apice della carriera. Dopo otto anni di lavoro e risparmi Belardinelli scalpita per tornare a Milano: l’obiettivo è ripartire con il negozio di famiglia, “Orologi Moderni e Antichi”. | colleghi lo salutano chiedendogli se non è preoccupato di tornare in un paese dove si diffondono “disordine, violenze... si ammazzano, si sparano”; Belardinelli non ci sta, stanno dimenticando che l'italiano non ragiona solo con la testa, ma “con questo”. Questo è il cuore.

Nonostante una catena di equivoci che all’inizio lo proteggono dallo stato delle cose, Belardinelli scopre di essersi perso il lustro che va dall’austerity agli scontri di piazza, i cinque anni in cui l’Italia - come tutto l'Occidente industrializzato ha scoperto che la crescita non può essere infinita, soprattutto quando la complessità del suo stile di vita dipende da una materia prima raffinata dal Medio Oriente.

Neanche vent'anni dopo, nello stesso Golfo Persico di Belardinelli, l’esercito iracheno di Saddam Hussein ha fallito la conquista del Kuwait e si sta ritirando incendiando tutti i pozzi petroliferi che incrocia verso il confine. Questa volta però in Kuwait non ci va Luciano Salce, che è morto qualche anno prima; ci va un altro regista, si chiama Werner Herzog.

Dal petrolio nascono così i miraggi e le scie nere di Apocalisse nel deserto che Herzog girò nell'estate del 1991 e nel gennaio del 1992: la desolazione dei pozzi in fiamme, la sabbia tinta di nero e i pennacchi densi di fumo che si alzano tra le gru che tentano di sedare il fuoco. Pochi edifici, qualche rudere, qualche stanza per la tortura con strumenti abbandonati.

Herzog sceglie di allontanarsi dalla scena bombardata per mesi dai telegiornali e di tornarci con uno sguardo estraneo; si estrania, fa-poesia. Apocalisse nel deserto è un documentario di fantascienza: nessun nome e nessun luogo viene mai citato, è un racconto senza valore informativo,

che trascende la ricostruzione degli eventi; si potrebbe

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trattare delle rovine di qualsiasi guerra in qualsiasi paese. In una delle interviste raccolte in Incontri alla fine del

mondo, Herzog spiega il film così:

Sa svolge come se l'intero pianeta fosse in fiamme e dal momento che st sente musica per tutto tl film, definisco Apocalisse nel deserto un requiem per un pianeta inabitabile, che not stessi abbiamo distrutto.

Come per la giungla di Aguirre o il Rio delle Amazzoni di Fitzcarraldo, i paesaggi dei film di Herzog sono quasi sempre riflessi di panorami interiori, indagine psicologica, intima, tracciato dell'animo umano che emerge nella natura che abitiamo. E il deserto è uno dei paesaggi che più ha inquietato e incantato Herzog, negli anni. “Ha qualcosa di molto primordiale, misterioso e sensuale”, racconta nella

stessa raccolta di interviste.

Non è solo un paesaggio, è un modo di vivere. La solitudine è la cosa più opprimente. Tutto è come sprofondato nel silenzio. IL periodo che ho trascorso nel deserto fa parte di una ricerca che per me non è ancora esaurita.

Nel film, il dolore della Terra viene riavvolto e proiettato al contrario, quelli sullo schermo dice il regista nel voice-over non sono operai ma forze oscure impegnate nel diffondere fiamme e morte su un pianeta alieno. Apocalisse nel deserto è ipnotico, arrogante, a suo modo nauseante, guardandolo sembra di percepire l'aumento della temperatura globale di minuto in minuto: il pubblico della Berlinale del 1992 però non lo perdona. Il film viene tacciato come esercizio estetico sul dolore: non tutti sono pronti ad accogliere l’estasi mistica di Herzog il romantico, il suo rapimento di fronte al fuoco, soprattutto quando le ferite sono ancora aperte.

| pozzi in fiamme sono una delle ossessioni di Herzog; erano già comparsi vent'anni prima in Fata Morgana. Herzog dice che il film è il frutto di un'intelligenza aliena, anche se le riprese sono di Jòrg Schmidt-Reitwein, il suo operatore. Girato anche questo principalmente nel deserto, nel Sahara meridionale, e poi nelle Canarie, in Kenya, Tanzania e Guinea, Fata Morgana è diviso in tre movimenti: Creazione, Paradiso, Età dell’oro. Accostato alla produzione matura di Herzog, il film è così pretenzioso da sfidare e

oltrepassare il senso del ridicolo: fuori campo, per dire, per

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qualche motivo vengono letti brani attinti o ispirati a Popol Vuh, “il libro della comunità”, raccolta di leggende sacre degli indios guatemaltechi.

Ma il deserto e la natura sono spaventosi e magnifici: dune infinite, qualche oasi, capannoni e fabbriche dismesse accanto a piccoli insediamenti umani, carcasse di aerei e di animali, discariche, pozzi di petrolio in fiamme, altre dune. Un bambino tiene fermo tra le mani un cucciolo di volpe albina, delle ragazze giocano fuori da alcune capanne di fango. Le immagini scorrono veloci, accelerate, il montaggio è allucinato. Ciclicamente tornano a risuonare So long Marianne, e That's no way to say goodbye di Leonard Cohen, dove probabilmente l’addio che viene evocato è quello alla civiltà, oltre che al senso e al linguaggio. “Questo paesaggio non ha alcun significato”, dice a un certo punto la voce narrante.

Se il cinema di Herzog poggia su pilastri ossessivi, il vulcano è indubbiamente uno di questi. Nel 1976, nelle Antille, l’isola di Guadalupe era stata evacuata per i borbottii sempre più insistenti dello stratovulcano La Grande Soufrière. Settantacinquemila persone avevano abbandonato le proprie case, da un giorno all’altro, lasciando le imposte al vento o l’aria condizionata ancora accesa. Herzog e due operatori volarono sull’isola, attratti dal racconto della catastrofe imminente, nel tentativo di riannodare in qualche modo il filo del destino instabile assegnato a questa piccola fetta di umanità da una natura così grandiosa e indifferente.

Nonostante i segnali inequivocabili, quell’eruzione non avvenne mai. Resta un mistero. Con il materiale girato Herzog montò La Soufrière, un film minore, un documentario di trenta minuti, la storia di una minaccia destinata a rimanere solo sospesa.

A quarant'anni di distanza, in Dentro l’inferno, Herzog è tornato a visitare uno stratovulcano in procinto di eruttare: quello del Monte Sinabung, in Indonesia. Questa volta il rischio non è rimasto potenziale, però. Qualche giorno dopo le riprese, nel maggio del 2016, esattamente nel punto in cui Herzog e la troupe avevano piazzato le telecamere, una pioggia di polvere e lava ha ucciso sette persone. Scrive

Giorgio Agamben:

Tutta la letteratura è memoria della perdita del fuoco

Un progressivo quanto illusorio allontanarsi dal mito,

un ricordo sbiadito della fiamma. Herzog vuole tornare alla

fiamma; ha capito che “la montagna [o la verità mistica] non ha bisogno di alcuna chiave; occorre soltanto penetrare la cortina di nebbia della storia che la circonda”.

Altre ossessioni di Herzog: gli animali mostruosi. Come gli orsi, o gli alligatori albini, che tornano spesso nelle interviste e nelle sue poesie. O i pinguini: in Encounters at the End of the World, del 2007, Herzog viene ammesso nella stazione McMurdo, base statunitense al Polo Sud, importante centro scientifico. Lì, dei pinguini, che erano stati da poco orribilmente antropomorfizzati nel pluripremiato La marcia dei pinguini (in Italia con la voce di Fiorello), Herzog sceglie di analizzare gli aspetti comportamentali più macabri, o quantomeno quelli meno noti: le deviazioni omosessuali, la presenza di dinamiche simili alla prostituzione da parte delle femmine e l’insanità mentale di alcuni esemplari che si allontanano volontariamente dal gruppo condannandosi a morte certa.

L'herzogiano non ha dubbi però su quale sia l’animale che ricorre più spesso nell’immaginario del regista. Il pollo. “Una delle ragioni per cui è sempre stato il mio regista preferito” dice un collega, Harmony Korine. Esempio più classico: il pollo danzante alla fine di Stroszek.

La ballata di Stroszek (1977) racconta la parabola triste di Bruno Stroszek, musicista di strada, emarginato galeotto berlinese, ubriacone con una lunga serie di piccoli reati compiuti per colpa dell'abuso di alcool. In cerca di redenzione, Bruno lascia la Germania in compagnia di una prostituta e intraprende la sua personale deprimente versione del sogno americano. Cerca fortuna e riscatto a Milwaukee, ma gli Stati Uniti si dimostrano un luogo inospitale, impenetrabile, spietato nei confronti dei falliti. Il film termina nel baraccone di un luna park indiano, con le immagini di una giostra a gettoni mal funzionante dove alcuni animali addestrati, un pollo, appunto, e un’anatra, e un coniglio, si muovono nelle loro gabbie arredate come case di bambole, con miniature di mobili umani: una sala da ballo, una caserma dei pompieri. La loro esistenza, come quella di Bruno, come quella di Belardinelli, è desolata, chiusa nella recita vana che sono costretti a mettere in scena quando qualcuno infila un dollaro nella giostra, e le luci si accendono e parte la musica.

E dalla fine del mondo, la Terra dei Fuochi argentina, che inizia Nomad, l’ultimo film del regista tedesco. Un regalo a Bruce Chatwin, un amico conosciuto tardi, negli anni Ottanta, quando ormai allo scrittore restava poco da vivere. Cobra Verde è ispirato al romanzo Il viceré di Quidah

di Chatwin, che venne invitato ad assistere alle riprese del

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DARE FUOCO ALL'UTOPIA

film. In Che ci faccio qui? Chatwin riassume così quello che

ha pensato di Herzog in quei giorni:

Scopri in lui un compendio di contraddizione: tremendamente cortaceo ma vulnerabile, affet- tuoso e distaccato, austero e sensuale, piuttosto insofferente delle tensioni della vita quotidi- ana ma quanto mat efficiente nelle situazioni d'emergenza.

Herzog non è mai interessato a comprendere e tramandare il presente, neanche quando si mette a raccontare la rivoluzione digitale: in Lo and Behold (sottotitolo italiano: Internet: il futuro è oggi) ignora programmaticamente quella che potremmo definire web culture (in una parentesi: i social, gli youtubers, i podcast, i meme), concentrandosi invece sugli aspetti macroscopici del fenomeno: le infrastrutture che conservano e scambiano i nostri dati, l'innovazione nella robotica, la presunta colonizzazione di Marte.

Perché la tecnologia muta di continuo: fissare la sua

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forma nel tempo ci dice qualcosa, certo, ma fino a un certo punto; da in poi inizia il territorio dei sentimenti

tra gli uomini, del rapporto interpersonale, l’illusione

nel distinguerci dagli animali, l'orgoglio nel distinguerci dalle macchine. Così nel film c’è l’empatia totale nei confronti dell’outsider, del sognatore, cristallizzata da subito nell’intesa creata con Ted Nelson un pioniere dell’informatica, epitome dell’idea di Genio Incompreso, catturato in un monologo che accarezza il delirio. Ci sono quelle che si potrebbero definire le Herzog Face, ovvero

il puzzle delle espressioni facciali su cui il regista tedesco indugia ogni volta che un intervistato finisce di parlare

e viene abbandonato, lasciato sospeso nel vuoto. C'è il finale scollegato dall'andamento della pellicola, la solita nota dissonante e stridula e molesta; in questo caso, dei signori bianchi di mezza età impegnati per qualche motivo a suonare della musica country l’ultima inquadratura, però, se la prende il fuoco che hanno acceso per scaldarsi. Il fuoco e il racconto, insomma: la cifra stilistica di chi ha diretto Lo and Behold, in fondo, è la stessa di chi ha diretto

La Soufrière e Fata Morgana. Sono tutti incontri alla fine

del mondo.

Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi sono i curatori di MEDUSA, una newsletter bisettimanale che parla di Antropocene, dell'impronta dell'essere umano sulla Terra, di cambiamenti climatici e culturali. Per iscriverti alla newsletter, inquadra il QR code a fianco.

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IL SALTO IDIBIL CHBORG

Loretta Borrelli

IL vero salto nella dimensione cybore non Starà piu in una “interfaccia chimica”, ma potremmo dire, in una “interfaccia genetica”.

Antonio Caronia, Il Cyborg. Saggio sull'uomo artificiale (2001)

dl

IL SALTO DEL CYBORG

LA FIGURA DEL CYBORG ha avuto ampia circolazione nel dibattito politico, in particolare nel femminismo. Manifesto cyborg (Feltrinelli) di Donna Haraway ha segnato nei primi anni ‘90 un punto di passaggio importante, individuando in quell’immaginario la capacità di essere strumento per il riconoscimento di e allo stesso tempo per il disconoscimento di sè, nell’ibridazione con l’altro non-umano. Molti lo ritengono un testo troppo entusiasta sulle possibilità della tecnologia, mentre Tristana Dini in La materiale vita (Mimesis 2016) fa notare che ci ha offerto: “alcune preziose indicazioni per cogliere il passaggio dalla prima fase del bio-potere a quella fase di «eccesso di bio- potere» che Foucault aveva prospettato nel corso Bisogna difendere la società”. l'eccessiva frantumazione messa in atto dal capitalismo, intuisce Haraway nel Manifesto, provoca suo malgrado l’indebolimento del dominio della cultura alto-tecnologica.

Il cyborg di Haraway prometteva nelle sue ambivalenze di definire «una polis tecnologica in parte fondata sulla rivoluzione delle relazioni sociali nell’oikos, l'ambiente domestico». Il Manifesto apriva a diversi processi politici di soggettivazione, facendo leva sull’opposizione performativa disturbante del cyborg.

Dagli anni ’90 a oggi, in contrasto con le speranze di Haraway, si sono avvicendate declinazioni politiche del cyborg che ricorrono più «a una logica di appropriazione, incorporazione e identificazione tassonomica», che a quella costruzione di «un'unità poetico/politica» non totalizzante, da lei auspicata.

Nel 2016 con il libro Staying with the Trouble (Chthulucene, Not Edizioni 2019), Donna Haraway propone delle figure fatte di filo che ampliano l’esperienza del cyborg, la ingarbugliano in una ramificazione tentacolare e la situano in un humus politico fertile di relazioni. Haraway anche in questo caso non chiude le possibilità politiche, ma invita a vivere processi simpoietici nella densità turbolenta del presente. Nel capitolo finale, invece di una conclusione teorica, scrive Le Storie di Camille, un racconto di FS, acronimo di fantascienza, femminismo speculativo, fabula speculativa, fatto scientifico. L'autrice esplicita il suo debito nei confronti della FS socio-politica di Ursula K. Le Guin, eppure è inevitabile cogliere nelle figure delle Camille l'eco del lavoro di Octavia Butler, una delle sue scrittrici di riferimento, in particolare nel ciclo xenogenesi: Ultima genesi (Mondadori Urania 1987), Ritorno alla Terra (Mondadori Urania 1988), Imago (1989). Il primo libro di questa trilogia è

stato trattato ampiamente da Haraway nel Manifesto.

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In Ultima Genesi di Butler, la protagonista Lilith lyapo, nera e madre di un bambino morto, si risveglia in un'astronave, superstite di una guerra nucleare che ha devastato il mondo, salvata da una popolazione aliena, gli Oankali, e scelta per addestrare gli altri esseri umani a una nuova vita su una terra rigenerata. ll prezzo da pagare è lo scambio commerciale di geni con gli enigmatici alieni che l’nanno salvata, non una semplice immagine della struttura genetica, ma la gravidanza e la generazione di un nuovo essere che non è più umano alieno. Haraway nel

Manifesto cyborg scriveva:

La gravidanza fa sorgere la spinosa questione del consenso, della proprietà nel sè, e dell'amore che gli umani nutrono per se stessi in quanto immagine sacra, immagine del medesimo. [...] Nella differenza c'è la perdita irreparabile dell'illustone dell'uno.

La stessa perdita dell'uno che Haraway auspica nella nascita di soggetti sim, le Camille, generate in parentele complesse, frutto di incroci genetici, che «vengono al mondo come simbionti delle creature di alcune specie a rischio», creano una speranza di sopravvivenza e riproduzione di fronte a ripetute estinzioni. Questa metaforica ibridazione biologica accetta sia il ciclo di vita che di morte dell’esistenza, e si oppone alla relazione biologico-gerarchica tipica del razzismo, uno strumento che Foucault, in Bisogna difendere la società (Feltrinelli 2009), riteneva fondamentale per il bio-potere nell’esercizio del diritto di dare la morte o lasciare morire.

Le Camille sono creature ctonie, spaventose, che rompono con le “rappresentazioni umaniste moderne dell’Antropos”. Anche gli Oankali di Butler sono creature mostruose, ricoperte di tentacoli, e provocano repulsione e orrore negli esseri umani. Frutto di ricombinazioni genetiche continue ricordano la Mixoytricha paradoxa, la creatura-immagine scelta da Haraway per rappresentare gli olobionti del Chthulucene.

Jdahya, oankali custode di Lilith, descrive le differenze

tra alieni e umani:

Avete una struttura gerarchica. Questa è

la caratteristica più antica e piu radicata. Ie È una caratteristica terrestre. [...] ÎVOT non abbiamo struttura gerarchica, capisci? Non l'abbiamo mai avuta. Ma abbiamo una

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notevole capacità di acquisizione. Acquistamo nuova vita, la cerchiamo, la esaminiamo, la manipoliamo, in un certo senso la sfruttiamo. Abbiamo in not l'impulso a farlo, in una minuscola cellula all'interno della cellula, un piccolissimo organello all'interno di tutte le cellule del nostro corpo.

Gli Oankali non lasciano scelta a Lilith in Ultima genesi. Nel romanzo Ritorno alla Terra ci ritroviamo su un pianeta rigenerato dagli alieni e abitato da soggetti differenti. Tra gli Oankali e gli esseri umani c’è una nuova specie frutto della incrocio genetico di quattro genitori a opera degli Ooloi, i soggetti alieni depositari del processo riproduttivo. Akin, figlio di Lilith e protagonista del romanzo, riesce a creare un dialogo tra gli essere umani dissidenti e gli alieni. Nella sua condizione ibrida soffre dell’impossibilità di identificarsi in un gruppo di origine. Nel Manifesto cyborg

Haraway scriveva:

Essere l'Uno significa essere autonomo, essere potente, essere Dio, ma significa anche essere un'illustone e quindi essere intrecciato all'altro in una dialettica apocalittica. Ma essere l'altro stonifica essere multiplo, senza confini precesi, logorato, inconsistente. Uno è troppo poco, ma due sono troppi.

Riferendosi alla narrazione di Butler aggiungeva:

Le forme contendenti di identità e differenza in un possibile futuro sono la posta in

g‘oco in questa narrativa incompleta di

un traffico attraverso gli specifici confini culturali, biotecnici e politici che separano e congiungono l'animale, l'umano e la macchina in un mondo contemporaneo dove la posta în gioco è la sopravvivenza globale.

In Chthulucene, Haraway non ignora la lacerazione dell'essere multiplo delle Camille e le spinge oltre la definizione del sè, verso un con-divenire con gli altri che attraversa quasi quattro secoli di storia. L'apertura proposta da Haraway eccede le definizioni tassonomiche, il processo simpoietico avviene nella intra-azione con soggetti e oggetti, e nella reciprocità delle risposte, cioè la capacità

di rispondere all’altro e porre l’altro nella possibilità di

rispondere, al di fuori dei meccanismi di identificazione. Haraway indica nelle pratiche politiche femministe un'esperienza in grado di rielaborare le soggettività attraverso la relazione. La differenziazione che propone ci ricorda l'unicità incarnata di Adriana Cavarero in Tu che mi guardi, tu che mi racconti (Feltrinelli 1997), che è fine a se stessa e si mostra in un contesto plurale, irrappresentabile e insostituibile nel suo apparire pubblico. Tale unicità è elemento centrale per la definizione di ontologia relazionale.

e

Per Cavarero tra l’’io” e il “tu” esiste un rapporto di reciprocità che permette la costruzione del a partire

dall’altro:

St tratta di un [...] a cui è sempre necessario l'altro. Non però un altro come categoria generale, bensi un altro 0 un'altra che sono sempre qualcuno, altrettanti sè, unici e irripetibili, in carne e ossa, presenti qui e ora.

Allo stesso modo il con-divenire che le Camille vivono nelle varie generazioni, nell'esperienza biogenetica e naturalculturale, non può fare a meno della relazione con altri e su questa fonda nuove parentele.

Pur evidenziando l’influenza di Octavia Butler, è evidente che la manipolazione genetica in Haraway è vista come metafora positiva per l'indagine delle trasformazioni del soggetto politico, in un tessuto teorico più ampio di quello del cyborg. Butler nella sua trilogia concepisce il sapere biogenetico come potere coercitivo. Le intenzioni degli alieni rimangono ambigue, il loro obiettivo è una vita pacifica che però è imposta attraverso la manipolazione genetica, loro unica fonte di salvezza. Nel suo terzo libro Imago, Jodhas, umano oankali-ooloi, arriverà al compimento della mediazione tra umani e alieni fondando una società basata sul rispetto reciproco e la libera scelta tra le diverse specie. Come fa notare Eleonora Federici in Quando la

fantascienza è donna (Carocci 2015):

Nella trilogia [...] l'autrice da una partie decostruisce la posizione razzista e xenofoba degli umani, costringendoli a non associare piu la differenza ad una negazione dell'umanità, dall'altra mette in discussione la politica colontalista rappresentata dagli alient.

Nelle opere di Samuel R. Delany, scrittore afromericano

di fantascienza della corrente New Wave, possiamo trovare

dI

IL SALTO DEL CYBORG

lo stesso approccio di Haraway. La mutazione genetica non è descritta con intenti catastrofici, ma costituisce spesso un pretesto per indagare la psicologia dei protagonisti e la complessità delle relazioni che vivono. L'autore costruisce società che vanno oltre la composizione multietnica, luoghi in cui le stirpi aliene si fondono fino a perdere la memoria delle proprie origini.

Nel romanzo Triton (Armenia Editore 1978), il cui titolo originale recita Trouble in Triton: An Ambiguous Heterotopia, Delany descrive una società in cui è possibile modificare senza sforzo il proprio sesso o fenotipo. Il protagonista Bron Helstrom trasforma il suo corpo e fa i conti con il significato che assume nelle relazioni, in particolare con la Spiga, misteriosa teatrante di una compagnia nomade impegnata nel tour planetario di uno spettacolo per singolo spettatore. La loro relazione si espande intrecciandosi con le vicende storiche e sociali dell'intero sistema stellare.

Nel libro Chthulucene, Haraway sottolinea la necessità di andare oltre l’eccezionalismo umano e i processi escludenti della civiltà occidentale. Sembra andare in questa direzione Nnedi Okorafor, nel suo l'interessante romanzo Laguna (Zona 42, 2016). La scrittrice statunitense, nata da genitori nigeriani, ambienta un'invasione aliena a Lagos. ll romanzo nasce dalla rabbia suscitata dal film

District 9, pieno di stereotipi sui nigeriani, e ci presenta

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una città crocevia di culture secolari e trasformazioni tecnologiche, partendo da un particolare spiazzante: il primo contatto alieno non è con un essere umano, ma con una pesce-predatrice che si lamenta della devastazione ecologica subita e ottiene dagli alieni un intervento immediato. La capacità di manipolazione aliena si presenta come una forza che non crea distinzioni tra specie tra culture, la stessa indifferenza della natura nei confronti della vita o della morte di cui parla Val Plumwood nel suo articolo del 1995 Essere preda (antispecismo.neti).

Laguna è un mirabolante carosello di figure complesse, esseri animali non-umani mostruosi, streghe marine, fanatici religiosi e reti informatiche. | protagonisti, Adaora, una biologa marina, Anthony, un rapper famoso e Agu, un soldato inflessibile, devono fare i conti con la propria esistenza per riuscire a preparare il loro paese a un cambiamento epocale.

Intanto il grande ragno artista, che vive nelle fondamenta di Lagos, intesse la storia e ci ricorda il Pimoa chthulu, figura di filo di Haraway. Questa creatura conosce da secoli gli intrecci della realtà ed è pronta a uscire dal

proprio rifugio per vivere nel disagio del presente:

Abbandonerò la mia tela. Diventerò partie della Storta, mi unirò al mio popolo.

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UNA NUOVA" RANTASCIHIBNZ

Patrizia Brambilla e Antonio Caronia da Lotta Continua del 13 Dicembre 1979

NOMI FEMMINILI il panorama fantascientifico ne ha sempre visti, tanto che alcuni fanno risalire la nascita ufficiale della SF (Science Fiction) come genere proprio al lavoro di una donna: Mary Shelley con Frankenstein. Ma è nell'ultimo decennio che le scrittrici di SF hanno dato la loro impronta a questo genere di letteratura fantastica, anche se non sono state le sole a prendere la via dell’innovazione (tanto per fare solo alcuni nomi: Delany, Bester, Varley, Disch, Dick, ecc.).

La fantascienza più interessante e stimolante (prevalentemente si tratta di quella americana) è quella che è andata allontanandosi dagli schemi narrativi che fino dalla sua origine l'hanno caratterizzata: non ci viene

più offerto, o almeno è messo in secondo piano, l’aspetto

6161 S1QwsvI( EL [PP enURUOI EI] IP 0[O9IHE,|[jep ajeuibiIo SUCIZENISNI[|

relativo alla trama, l’azione, la suspence, il “sense of

wonder”, le proiezioni fantascientifiche e sociologiche,

le varie utopie e antiutopie. Ci troviamo sempre meno di

fronte a meravigliose astronavi guidate da super-uomini,

accompagnati da bellissime donne/oggetto sessuale,

che si scontrano con alieni sempre mostruosi e malvagi.

Piuttosto le invenzioni narrative, l'immaginazione si

sono andate orientando verso viaggi meno eclatanti e

avventurosi, anche se non meno difficoltosi e problematici:

l'investigazione, l’attenzione degli autori, e delle autrici

in particolare, si basano più sul viaggio all’interno di

sé, all’interno delle convenzioni e degli schemi sociali e

narrativi, un viaggio dentro alle cose, alle parole e alle

persone, utilizzando il pretesto formale di mondi futuri che

“potrebbero” esistere; usando il futuro come uno schermo

su cui proiettare il presente slegandolo dall'obbligo di

ripetere fedelmente la realtà e dalla convenzione. Ritroviamo nella fantascienza femminile molte delle

tematiche che le donne e il loro movimento hanno sollevato

in questi anni. Corpo e parola, fisicità e linguaggio, rapporto PIRATA AAA ZA I n ) Dr TS 5 7 ‘4. Ù i A SS Lp 7 Da 3 to dl i a Fi dl 5 LIGA O con le altre donne, conflittualità/amore per la madre, IZ.zazZ?Z— << SASSI, = o DUAN À

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VARA

UNA "NUOVA" FANTASCIENZA

sessualità, ambiguità, separazione e separatismo, ricerca di identità al di fuori degli schemi e delle costrizioni, enfasi sul “quotidiano”. Purtroppo troppo poco è apparso in

Italia di questo genere di scritti: le case editrici italiane, specializzate e non, preferiscono puntare e dare spazio a romanzi che (anche se scritti da donne: citiamo solo per fare un esempio e senza entrare nel merito un nome molto propagandato quello di Tanith Lee) sono “tradizionali” come impianto e come contenuti, e solo travestiti da

una patina di presunto femminismo. Non basta mettere qualche personaggio femminile in più o una protagonista donna alla ricerca della sua identità per dire qualcosa alle/ sulle donne. Ursula Le Guin è stata sicuramente la prima donna, che ha tentato di trasformare, di innovare questo genere letterario: ha dato più consistenza e più dignità

ai personaggi femminili, ha usato meglio la sessualità,

ha inserito nei suoi lavori il bagaglio di conoscenze sociologiche, antropologiche, psicologiche che non erano mai state molto usate in questo campo. Ma molto di più

di lei ha fatto sicuramente la leva più giovane di scrittrici fantascientifiche impostesi all'attenzione generale negli ultimi anni. Una di queste scrittrici è James Tiptree Jr. (alias Alice/Raccona Sheldon. Lo pseudonimo maschile da lei usato e il suo carattere schivo hanno fatto impazzire per 10 anni critici, e colleghi scrittori che presuntuosamente la pensavano un uomo).

Uno dei racconti più belli e significativi è “The girl who was plugged in” (tradotto in italiano come “La ragazza collegata” nel volume | premi Hugo, Nord Milano, 1978). Con una scrittura lucida fino alla violenza descrive la storia di una ragazza brutta e sola fino al suicidio in un mondo dove la Olovisione, gestita da una Corporatio pubblicitaria, offre come identificazione, come unico modello la formula bello/felice/fortunato. Useranno il suo cervello per dare

vita e sentimenti ad una bellissima bambola, un cyborg

(cibernetica + organi umani) che diventerà una diva famosa.

L’identificazione tra la brutta e il suo bel corpo arriverà ad un punto tale che il corpo riuscirà a sopravvivere qualche istante alla morte. Per J. T. non ci sono lieti fini, non c'è riconciliazione, siamo spezzate, non resta che tentare di sopravvivere, e se ci si presenta l'occasione, di fuggire. Joanna Russ, da noi quasi sconosciuta, è ancora più radicale nell’impostazione dei problemi e nella riproposizione, anche se problematica, del separatismo. Molto incisiva è la sua descrizione di mondi di sole donne, come nel bellissimo The Female Man (L'uomo femminile),

non tradotto in italiano (solo alcuni estratti sono stati

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pubblicati nell'antologia Domani andrà meglio, Longanesi 1975): “contrariamente a quanto ci si aspetterebbe dal titolo, non si tratta affatto di esseri umani geneticamente androgini come in La mano sinistra delle tenebre di Ursula Le Guin, ma precisamente di quei processi ideologici che attraverso il linguaggio e le altre forme di rappresentazione operano nell'immaginario e nelle istituzioni sociali, come pure nell’inconscio individuale, a definire il soggetto e a fissarne l'identità nei termini di donna o di uomo”.

Teresa De Lauretis: SF in USA: linguaggio e corpo, in Alfabeta n. 3/4, 1979). “Quando cambiò” uno dei pochi racconti della Russ tradotti in italiano, parla appunto della confusione e della difficoltà che provano le donne abituate a vivere ai loro ritmi, e padrone di se stesse, nel momento in cui gli uomini (tutti morti da trenta generazioni) tornano sul loro pianeta: davanti alla sicurezza degli uomini, sentendosi nuovamente castrate, invalide, spezzate, bambine, non possono fare altro che chiedere tempo: “E tentai di spiegare quanto sia duro quando gli artisti possono essere tali a tempo pieno solo a tarda età, quando ce ne sono tanto pochi, veramente tanto pochi che possono essere liberi... Non c’era bisogno di sacrificare la qualità della vita per una pazza corsa all’industrializzazione. Lasciateci andare al nostro passo, dateci tempo”. (Cit.)

A cavallo fra due fantascienze: questo si potrebbe dire di Ursula Le Guin. Per un verso, infatti, la Le Guin affina e scaltrisce il filone della fantascienza classica, avventurosa, fiduciosa nelle “magnifiche sorti e progressive” dell'umanità; per altri versi, invece, si avvicina al filone della “nuova fantascienza”, quella femminile ma non solo - di cui si parla in queste stesse pagine, quella che potremmo chiamare, con McLuhan e Baudrillard, la “fantascienza di simulazione”, aleatoria, digitale e cibernetica, spesso disperata e disperante.

Che cosa avvicina Ursula Le Guin a questa “nuova fantascienza” degli anni ’70? Innanzitutto un rapporto con la scienza diverso da quello della fantascienza precedente: se fino agli anni ’50 il retroterra culturale di questo ramo della letteratura di massa era costituito dall’invenzione scientifica, o più spesso dall’estrapolazione tecnologica mirabolante, con la “nuova fantascienza”, anticipata in questo dalla Le Guin (e con la mediazione della cosiddetta "fantascienza sociologica” a cavallo fra gli anni '50 e ’60) sono le scienze umane a fornire il materiale di sfondo più interessante: psicologia, sociologia, antropologia. Del resto Ursula, nata nel 1929, è figlia di un celebre antropologo,

Alfred Kroeber, e di una scrittrice: l’ambiente familiare ha

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lasciato una traccia profonda nella sua formazione, come del resto gli studi, conclusisi alla Columbia University con

una laurea di letteratura francese e italiana (letteratura

insegna anche il signor Le Guin, sposato da Ursula a Parigi).

La costante dimensione antropologica delle sue opere

non significa, però, assenza di una tematica più legata

alle scienze esatte o naturali: solo che, a differenza degli autori precedenti (e a somiglianza invece di un altro grande innovatore, per altri versi così dissimile da lei, Samuel Delany) troviamo qui la percezione acuta della crisi della razionalità scientifica, della dimensione problematica delle scienze attuali e del loro legame/dipendenza col potere.

Ci ritorneremo a proposito della figura di Shevek in The Dispossessed.

Uno dei lati più affascinanti di Ursula Le Guin (probabilmente la molla più vera dei momenti di cattivante segretezza ed elusività del suo stile, quando questo non si rovescia in sentimentalismo e romanticismo convenzionali) è la profonda coscienza della relatività delle culture, della loro valenza ambigua e duplice: la cultura come fattore di coesione della comunità, e come barriera, così difficile da superare, nei confronti di altre comunità e altre culture. Questo, in fondo, è un po’ il tema di tutti i suoi romanzi: risalta forse meglio in The word for world is Forest (Il mondo della foresta), che a nostro parere è uno dei suoi romanzi più riusciti, anche se (o forse perché) dei più trasparenti. È la storia di un pianeta abitato da piccoli umanoidi, i cui maschi hanno la capacità di sognare in modo semi-cosciente e controllato, mentre alle donne è lasciato il compito di gestione complessiva della comunità. Ai terrestri insediati su quel pianeta sfugge il meccanismo di mutamento culturale di questo popolo della foresta: sfugge ovviamente ai militari, che si comportano con una brutalità che richiama deliberatamente il periodo della guerra vietnamita, ma anche all’antropologo, il cui senso di simpatia verso di loro, pure, è sincero. Finché, saldato il “tempo del sogno” al “tempo del mondo”, i piccoli umanoidi si rivolteranno, provocando l’intervento della Lega dei mondi (v. il Ciclo di Hain).

Ma la Le Guin è anche, forse soprattutto una scrittrice di stampo “classico”, europeo si potrebbe dire, e per questo isolata nella fantascienza (e più in generale nella narrativa) americana di questi anni. Il suo legame con la tradizione del grande romanzo europeo dell'Ottocento la porta infatti al tentativo di recuperare la centralità del “personaggio”, dell’individualità come centro delle

preoccupazioni etiche di fondo e dell'impianto narrativo.

l'isolamento dei protagonisti di fronte alle grandi correnti sociali e storiche, la loro difficoltà a padroneggiare gli avvenimenti, eppure il loro rilievo assoluto non ci riportano solo ad uno schema innegabilmente tardo-romantico, ma anche ad una concezione del ruolo del soggetto come centro possibile di una conciliazione degli opposti, di un superamento delle contraddizioni che proiettate sullo schermo di un lontano futuro, sono però innegabilmente le nostre. Il rilievo dei protagonisti e la nostalgia per un mondo unitario sono evidentissimi nelle due opere migliori della Le Guin. La mano sinistra delle tenebre ha provocato lunghe polemiche (in cui si è distinto anche Stanislaw Lem) per il modo in cui l'autrice rappresenta una società di androgini. Tali sono infatti gli abitanti del pianeta Gethen, la cui sessualità si attiva soltanto nel periodo fertile del ciclo, potendo svilupparsi indifferentemente, e, in una certa misura, casualmente, sia in senso maschile che in senso femminile. Il diverso, su Gethen, è Genly Ai, terrestre e maschio, inviato dalla Lega dei Mondi: la sua missione e la sua persona sono circondati da scettica

e diffidente cortesia. Solo un getheniano, Estraven, gli crede, ma finirà per pagare con la sua vita il successo della missione del terrestre. Solo allora Genly Ai comprenderà

il sottile, ambiguo e mai comunicato rapporto d'amore che lo legava a Estraven. Ai lettori di questo giornale è probabilmente più noto | reietti dell’altro pianeta (orribile titolo che traduce l'originale, ben più pregnante, The Dispossessed). Il sottotitolo è Un’ambigua utopia, e si comprende bene perché i due pianeti Urras e Anarres sono le sedi di due diverse società, di due diverse concezioni del mondo. Il primo, favorito dall'ambiente naturale, è il pianeta dell'abbondanza, mercificata però dal capitalismo. Il secondo, arido e desertico, è il teatro di un esperimento anarco-comunista compiuto da una colonia di urrasiani trapiantati su Anarres dopo una rivoluzione semifallita su Urras: sono gli “odoniani”, seguaci di Odo, una donna sulla cui tomba significativamente sta scritto: “Essere integro è essere parte / Vero viaggio è il ritorno”. Ma su Anarres, dopo decenni di isolamento, si stanno sviluppando i germi della burocratizzazione: ad essi vuole sottrarsi Shevek, fisico di Anarres che ha scoperto una Teoria Temporale Generale in grado di unificare Sequenza e Simultaneità, essere e divenire. Il suo viaggio su Urras non porterà immediatamente la conciliazione che egli cerca, ed egli

si renderà conto di quanto sia apparente la “libertà” della scienza in una società mercificata: ma servirà comunque,

dopo la stasi dell’Utopia, a rimettere in moto la Storia.

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© Immagine satellitare del Nord Italia, 20.01.1985

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IL GELO

Mi piace immaginare che la sera del 13 gennaio, appena prima di andare a dormire, tutti abbiano dato uno sguardo al cielo, almeno per un attimo. La luce arancione della notte di Milano salutava l'inizio del 1985 con grandi fiocchi bianchi di neve che tutto era, tranne che immacolata.

Il 14, 15 e 16 passarono con divertimento @. Il 17 e 18 con sbigottimento, il 19 il timore mutò in paura. Il 20 gennaio lo stato d'emergenza venne dichiarato in tutte le regioni del nord. Quando le prime carovane di soccorso partirono dal sud dello stivale, i cigli delle piazze di partenza, anche quando imbiancati, brulicavano di gente: mani a sfiorare le tute di pompieri e protezione civile, baci soffiati nel vento in direzione di quelle che, al tempo, chiamavamo ancora guardie forestali. Eroi ignoti dai lineamenti familiari. In febbraio, alla testa dei convogli militari @, erano mezzi spazzaneve e per movimento terra. Lonestà ingenua delle prime ore era stata interrotta dal nuovo corso: atteso e temuto, inevitabile e irreversibile, l’esercito aveva ottenuto il comando delle operazioni di messa in sicurezza e abbandono di piccoli paesi e grandi città, centri storici e periferie. Fu così che l'atmosfera goliardica e umida delle palestre comunali, lasciò il passo ai neon gelidi dei centri per sfollati.

Per il primo anniversario, a trenta giorni dall'inizio della bufera, il governo Craxi diramo un documento riservato ai direttori dei principali organi di stampa e alla tv di stato.

Fu anticipato di una notte dalla seconda ondata di neve ghiacciata. I giornali nemmeno andarono in stampa per via del coprifuoco. A un mese esatto dai primi fiocchi, il paese era in ginocchio.

Con la sola eccezione dell'autostrada per Bologna, la cui unica corsia agibile era costantemente pattugliata da grandi mezzi spazzaneve, i collegamenti per Milano chiusero come pori infreddoliti uno dopo l’altro, con rapidità imprevista dal centro per l'emergenza regionale. In aprile, quando i parchi urbani tagliati di fresco improvvisamente si riempiono di fiori, non era possibile scorgere un solo pallido sentore di verde in tutta la città. Sempre in aprile i primi palazzi furono sfollati per via dello spegnimento delle caldaie mentre i rifornimenti ai supermercati erano già stati razionati, così come gasolio e medicinali. Entro la fine del mese il trasporto pubblico fu formalmente sospeso, non c'erano più taxi buontemponi in giro “sci ai piedi” nelle ore di tregua. Con le scuole e gli uffici pubblici serrati, la giunta cittadina riunita telefonicamente grazie a un ponte radio civile, commissario tutte le zone della città e ottenne dal governo il compito di

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Rin anta maia comno Serena ni menatanio regia rsnavo 7a - Mercoledì 16 Gennalo 1985

La sorio neve) blocca Piemonte, Lombardia e Liguria

IL CAOS BIANCO

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TORINO PARTE il TOTO-SINDACO...

@ Prima pagina de La Stampa Sera, 16.01.1985

@ Convogli Militari a Milano, Febbraio 1985

*Alba di Ruggine è racconto concepito inizialmente per la performance “Un’Ambigua Ucronia” realizzata dal collettivo OffTopic alla Fondazione MUDIMA nel Giugno 2018.

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ALBA DI RUGGINE

agevolare lo sfollamento in direzione sud di tutti quanti intendessero abbandonare la citta.

Milano, per come l'avevamo conosciuta da sempre, collasso sopra queste parole:

La prefettura della città, su ordine del governo centrale, invita tutti quanti desiderino lasciare la propria casa in cerca di un ricovero più sicuro, a raggiungere il centro di smistamento.

Dopo il crollo del 12 marzo, i lavori di ripristino erano concentrati sulla stazione centrale. La raggiungeva di giorno e di notte, per quel che valevano il giorno e la notte, alla luce dei fari dell'esercito e delle altre forze dispiegate a osservare il centro citta. Il corridoio di quindici giorni, predisposto per l'abbandono programmato della citta, ricevette il nome nemmeno troppo originale, di Progetto esodo.

IL DISGELO

dice che il giorno più caldo del 1985 sia stato il 24 agosto. Non prima, non dopo. I 14 gradi registrati quel pomeriggio suggerirono al sindaco Tognoli di tenere un discorso alla città. Dal culmine della collina di neve, candidamente sorta sulle macerie della cupola della storica galleria Vittorio Emanuele, brindava a un nuovo inizio per i milanesi.

Quale illusione. L'autunno non si fece attendere prima di soffiare nuove abbondanti precipitazioni sulla pianura.

La furia non e quella dell'inverno alle spalle, il peggio è passato.

Cosi dicevano in molti, come a tranquillizzare le anime esauste della piccola glaciazione. Il disgelo ebbe inizio in aprile dell'anno successivo (1986), per procedere speditamente in maggio e giugno. La città rimaneva imbiancata di un velo insistente e le tubature fessurate dal ghiaccio, esplose dalla sua energia, riversavano fiotti d’acqua sghiacciata di fresco per strade e cantine. Di giorno era tutto uno zampillare, di notte la realta si frizzava come fermo- immagine.

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Il macabro calcolo dei dispersi, le polemiche sulla gestione commissariale dellemergenza, il conteggio stupefatto dei danni e dei tempi di ripristino della vita civile, facevano i conti col ghiaccio gia riversato sulla pianura. Di tante parole vergate febbrilmente su capricciose macchine da scrivere, nessuna fu dedicata agli effetti sul territorio di quella mole impressionante di acqua surgelata, una volta tornata al suo stato naturale.

I sinonimi di esondazione sono: straripamento, inondazione, traboccamento, tracimazione. Per capire quello che è accaduto poi bisogna sapere che a nord di Milano, dai piedi delle prealpi al confine posto sul displuvio, il profilo delle valli prima di quello dei monti, era a questo punto della storia irriconoscibile. La civiltà riposava, sepolta dalla coltre. L'abbandono precipitoso aveva lasciato spazio ad una quiete imbiancata e letargica. Quando i nevai cominciarono a fondere, nessuno era davvero preparato.

Aveste la mia eta sapreste che l’acqua di Milano, disciplinata in fiumi e corsi d’acqua dai nomi ignoti ai molti, proveniva all’epoca da due fonti: il Ticino e Adda, completati dai rispettivi canali. Su questi, per quattrocento lunghi anni, erano transitate a bordo di chiatte le derrate e materie prime provenienti dalle regioni intorno. Solo nel ‘900 la bitumazione delle strade avrebbe messo definitivamente in ombra la loro importanza storica.

L'esondazione vera e propria cominciò nel mese di giugno del 1987. Dei due fiumi che lambivano la provincia, fu un terzo corso d’acqua a riportare la paura nelle strade. L'Olona lascio il suo alveo, definitivamente occupato da ghiaccio e detriti, per farsi largo tra le carcasse dei palazzi in abbandono. Della fonte del fiume, ubicata nei pressi del Sacromonte di Varese, nessuno aveva notizie testimonianze fotografiche da parecchi mesi.

Le istantanee (0, 6) fanno impressione anche a vederle a tanti anni di distanza, impresse nella memoria collettiva come l’uomo coi sacchetti in piazza Tien-an-men.

Per prima venne la palude @. L’orografia stravolta dalle radici dell'urbanizzazione, non era nota alle acque che si aprivano una rotta sulla base della consistenza degli ostacoli incontrati.

© Periferia Ovest di Milano, 03.06.1987

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IL GIORNO. i

CAOS NELLE STRADE. CROLLI. ALLAGAMENTI. PAURO

Ora Milano è è una palude

@ Viale Zara, 19.06.1987 6 Prima pagina del Il Giorno, 14.03.1988

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Allora nessuno avrebbe pensato, nemmeno per un attimo, alla parola “ri-scal-da-men-to climatico”.

Nel luglio del 1988, a due anni dall'avvio del disgelo, PA.PU., per esteso Argine di protezione urbana, fu ultimato: Milano ne usci fortemente ridimensionata e stravolta. Stabilito e ordinato il nuovo corso del fiume, per quel che era possibile stabilire e ordinare, l'Oltreolona apparve. Una muraglia di cemento armato vibrato lunga sedici chilometri, feriva la citta separando indelebilmente la west-coast dal centro storico e dalle sue propaggini a nord e sud-est. Da 4a 8 metri di altezza, da 2 a 5 metri di spessore, giorno dopo giorno la barriera prendeva forma con lo scopo dichiarato di tutelare la città dalle acque, ma, come ogni fortificazione rivelo ben presto, e prima di ogni altra cosa, un elemento di separazione tra chi abitava dentro e chi fuori dal nuovo confine.

L'ALBA DI RUGGINE

La prima luce del 1998 viene ancora ricordata come “alba di ruggine”. Nella city abitavano 318.455 figli dell’orgoglio, della disperazione e sfollati dell'hinterland, ad ovest del grande fiume era intanto sorta la Federazione della cintura ovest. Se all’interno dell’argine a difesa dei quartieri interni la vita scorreva febbrile all'insegna della ricostruzione, ì quartieri e i comuni separati dalla forza delle acque, erano organizzati in veste neofeudale, all’insegna di scontri di potere e di una caotica forma di ospitalità di quanti non avevano trovato posto a Milano. Orfano della pioggia di finanziamenti e attenzione che la city concentrava su di sg, diviso al suo interno dagli allagamenti, Î Oltreolona, benche retto dalla Federazione, aveva l'assetto amorfo di una rete di borghi alleati e al tempo stesso in competizione tra di loro.

Cosi, dopo la stagione dello spaesamento e della caduta, vennero i giorni della discordia e della diffidenza, quelli citati nella Convenzione di Wagner (1995) come:

Il tempo fratricida della crisi ha messo a dura prova la tenuta dell’ordine democratico.

E ancora

[..] 1 firmatari del presente atto si impegnano a garantire il rispetto dell’alveo e la tutela del suo status di indipendenza fino all’avvento del 2000.

Lo spazio liminale che separava al tempo l’argine dalle paludi dell’Oltreolona, era destinato ad essere conteso, come e più di tanti muri eretti a separare 1 corpi, ben più a lungo di quanto ingenuamente previsto. I sabotaggi allargine non tardarono ad arrivare. La primavera del ’94 è ricordata specialmente per la prima breccia da cui l'acqua zampillo per dieci giorni ad alta pressione prima che i lavori di restauro fossero ultimati. All’interno della city non una sola voce pubblica in sostegno dell’azione sollevo, eppure erano in molti a rumoreggiare nell'ombra. All'esterno della cinta organizzavano cortei, dei molti è rimasto impresso nella memoria collettiva quello del 25 aprile 1994: tutti con gli ombrelli, un fiume umano sopra un fiume liquido, a combattere una pioggia senza fine con l'acqua (nei punti meglio protetti!) a lambire le caviglie 0. Una manifestazione di rabbia degna, “oceanica” e indimenticabile, filmata dagli occhi elettronici disposti in sequenza, a 100 metri dall’argine.

esclusivo escludente, Oltreolona terra accogliente!

In questo, tra i murales storici vergati ossessivamente nella periferia imbiancata, si perde la mitologia dei giorni della prima resistenza. Tanto più la city assumeva i contorni di una mini- metropoli postmoderna, verticale e prepotente, tanto più la sua versione periferica e litigiosa dell’Oltreolona ne inseguiva le orme in forma di contraltare umido e democratico. La ribellione ai posti di controllo, ai razionamenti, alle giornate di lavoro pubblico obbligatorio, da prepolitica divenne semi-clandestina ed organizzata, trovando terreno fertile all'ombra dei conflitti tra potentati locali.

Il Programma di rigenerazione fu esplicitato, col sostegno del governo nazionale, nel corso dell'unità di crisi dell'anno successivo (1995): l'allagamento controllato dell’Oltreolona avrebbe permesso di liberare Milano dalle acque, rinunciando al 15% del territorio originale ma evitando la definitiva

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ALBA DI RUGGINE

distruzione delle fondamenta messe a dura prova prima dal ghiaccio, poi dalla ruggine. Contro questa ipotesi, che a pensarci a mente fredda pare davvero fantascienza, si opposero in pochi tra gli inquilini del cuore protetto della city. Di segno opposto fu la reazione degli abitanti extra moenia, che, guidati dai gruppi di potere emersi dalle stagioni più

rigide, credettero di sollevarsi contro l'esproprio manu militari del proprio quartiere, via, palazzo, appartamento, del proprio parco, alimentari, biblioteca, scuola.

Meglio divisi che allagati!

recitavano gli slogan vergati a tinte forti sui muri in vista delle carcasse rugginose e sfatte degli immobili più imponenti. Il programma, che prevedeva la deviazione dell’Olona all'altezza del suo ingresso in città in corrispondenza dell’interramento a questo punto irreversibilmente ostruito, fu presentato in pompa magna e presto contestato in ciascuna delle borgate il cui futuro era minacciato dal pantano. E tornarono gli attentati alla diga, questa volta più rumorosi, così come tornarono i fuochi nell’Oltreolona, dove allo spettro dell’allagamento si aggiungeva quello dell'influenza più aggressiva del Dopoguerra.

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IL VILLAGGIO IPOGEO

Mutuo appoggio, ricostruzione, autodifesa.

Del Manifesto ‘94 non abbiamo che alcuni stralci. Si dice la sua copia originale sia stata andata distrutta nei giorni del rogo. Il motto è invece sopravvissuto alla fragilità della carta ingiallita dall'umidità e rappresenta lo spirito di quei mesì con limpidezza. Queste tre parole riassumono ancora oggi, per chi è speso a tramandare l'epopea del Villaggio ipogeo di Piazza d'armi, il punto d'attacco ineludibile.

Dove il suolo esisteva ancora, e fu possibile scavare e sopravvivere nei giorni più difficili, sorse infatti nell'antica area militare posta sulla via delle Forze Armate (a due passi dall'antica municipalità autonoma di Baggio e dove un tempo partivano i dirigibili scientifici) una vera e propria cittadina sotterranea @. Mentre la neve prima e l’acqua poi nutrivano la terra, rendendola al tempo stesso inospitale, i grandi parchi urbani dimostravano tutta la loro resilienza, assimilando le acque che il cemento e l'asfalto trattenevano in allagamenti senza fine. Assorbimento e dispersione, pozze in superficie e cunicoli sotto la prima linea di falda acquifera, che scaricava a sud il grosso delle precipitazioni. Qui, dove nei giorni frementi erano stati scavati i primi tunnel per sopravvivere al freddo laddove la terra manteneva invece una temperatura statica, erano cresciuti nel tempo magazzini e stoccaggi sotterranei, quindi cunicoli per abitare e spostarsi da un quartiere all’altro senza bisogno di affrontare i rigori della piccola glaciazione. In questo luogo, tra i molti, sorsero le prime cooperative di mutuo sostegno e trasformazione a lungo termine delle derrate. Sempre qui sorsero, siamo agli albori del 1998, i Gruppi di autodifesa dell’Oltreolona, quando l'arroganza dei milanesi e la repressione dei feudi consorziati nella Federazione, dette il giro di vite finale in vista della Conferenza per il riassetto urbano tra Est e Ovest. Il Villaggio ipogeo dell'ex Piazza d’armi @ non era l'unica ma rimase certamente un esemplo di ispirazione per resistenti e resilienti di altre borgate e libere municipalità. L'adattamento alla vita sotterranea non fu semplice: se i primi tunnel furono aperti gia durante la ghiacciata, solo

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© L'evoluzione della zone Ovest di Milano, dalla nevicata del 1985 ai villaggi ipogei della metà degli anni Novanta.

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nel tempo la complessità di cunicoli, scavi, camere ipogee e ancora raccordi, vie di fuga, impianti, porto a far emergere (almeno in termini figurativi) una vera e propria cittadella posta al di sopra e al di sotto del piano di campagna.

Case, botteghe, scuole, magazzini erano disposti nel cuore di una pianta inestricabile di percorsi ipogei in cui era possibile difendersi dagli agenti atmosferici, dalle pretese dei feudi e dall’aggressivita paramilitare della city e delle sue incursioni a protezione dell’argine.

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@ Schema del villaggio ipogeo di Piazza d’Armi, 1095

Qui si accumulavano provviste offrendo forza lavoro, con impieghi anche nelle lande circostanti, e ogni risorsa economica e materiale era messa in comune. L'amministrazione autogestionaria del villaggio prese forma poco per volta, si procedeva per esperimenti, litigi, tanti, e mutamenti di rotta. Il fatto più curioso era la scuola per adulti, dove ciascuno poteva assumere il ruolo di docente ed alunna/o a seconda delle esigenze della stagione e dei saperi messi a disposizione della comunità. Il gruppo di autodifesa, l’unico ad abitare in pianta stabile sulle palafitte poste a tutela dell’area, contava nel 2001 almeno 230 elementi.

Lo sviluppo verticale della city conobbe una fase di accelerazione improvvisa con lo sblocco dei fondi ministeriali per l'emergenza e la crisi del 1999: da una parte un numero incalcolabile di cantieri fu aperto per smontare e ricostruire letteralmente meta del corpo urbano, dall'altro l'assalto umano di marzo costrinse ì due contendenti ad abbassare i

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toni dello scontro aperto per cercare una soluzione diplomatica al concreto rischio di allagamento

del fronte ovest. Le lancette della Convenzione correvano giorno dopo giorno. Solo agli albori del primo caldo la soluzione fu annunciata: rinuncia definitiva all'allagamento dell’Oltreolona, convocazione di elezioni costituenti per la rifondazione della città di Milano, rinuncia all'autonomia amministrativa da parte dei feudi e libera partecipazione alle elezioni dei suoi leader incriminati per aver minato la stabilità dell'unione territoriale.

O | grattacieli alberati, 2004 circa

NEL 2000

“Nel 2000 prenderemo quattro pillole e con gran semplicità, la fame sparirà”. Così cantava nel 1959 Bruno Martino. Negli anni ‘oo di pillole ne circolavano in abbondanza eppure la fame, specie quella di giustizia, non era affatto placata. Nel cuore della city i primi grattacieli alberati @ svettavano ricchi di essenze geneticamente modificate e frutti d’ogni colore, mentre all’esterno erano colture idroponiche e serre a rinnovare il paesaggio livido dell’oltretorrente. Il cuore pulsante di Milano batteva frenetico di lavori in corso e grandi progetti di rigenerazione urbana: il nuovo stadio fu inaugurato nel 2002 sulla macerie del Piranesi, l'anno successivo furono aperti i distretti “tremila” tre nuovi quartieri privati al posto della tabula rasa degli scali ferroviari. E ancora nel 2007 il nuovo municipio apri i battenti al 52esimo piano della Coima tower dell’asse sopraelevato di via Melchiorre Gioia.

Le elezioni, di volta in volta rinviate per via dell’ostilità e della litigiositaà dei feudi di fronte al nuovo corso, furono fissate con macabra ironia per 18 settembre 2012. Una tortura di campagna elettorale aveva segnato le due stagioni precedenti all'insegna della riunificazione e della pace. Le bandiere con lo stemma e il biscione, issate a centinaia ai due lati della barriera e presto sbiadite dal tempo, furono sostituite sei mesi prima, a segnare un countdown dall'esito gia scritto. Intanto in quanti erano ostaggio delle incursioni extraterritoriali della guardie di confine? In quanti erano stati comprati dalla promessa di lavoro e casa per il ripopolamento della città di dentro?

Quegli stemmi erano diventati il simbolo manifesto di un'unione d’intenti ritrovata per scongiurare l’allagamento e la definitiva frattura della città ma segnavano anche l'inevitabile vittoria di un progetto che faceva pesare oltremodo la potenza del capitale nella ridefinizione dell'assetto urbano e sociale del presente. Intanto i nostri tessevano incessantemente la trama di relazioni sommerse, esercitavano la prossimità, vivevano e resistevano con la stessa caparbia di chi non si adatta.

EPILOGO

Ricordiamo il 1 maggio 2015 come i compagni degli anni ’60 o ‘70 (alcuni si chiamavano ancora così!) omaggiavano la Comune di Parigi. Non si può dire che non rimanesse nulla dello spirito che aveva animato l’Oltreolona ma quando alle 15 in punto comincio la distruzione controllata di quell’odiato muro non tutti parteciparono alla festa. I mille giorni di tolleranza erano terminati e la nuova polizia unitaria aveva preso il controllo di quasi tutto l'agglomerato metropolitano. Gli scoppi, intervallati da pause di 6 secondi, durarono un minuto in tutto: 60 secondi per aprire una breccia nel manufatto che aveva diviso in due la popolazione.

Quella stessa mattina, a sorpresa, la carovana abbandonava il Villaggio lungo la linea di frontiera dell’Oltreolona, alla ricerca di territori liberi dal giogo della modernità selvaggia: spazi inediti per

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nuove forme di vita. La decisione di non annegare nel sangue la resistenza fu presa, per una volta, non dal più forte ma dalla ribellione. Il Villaggio ipogeo brillo 15 minuti dopo i varchi aperti dalle esplosioni controllate nella diga. Un botto epocale, anzi no, una sequenza ordinata come una scarica di colpi a salutare i festeggiamenti che impazzavano al di la e al di qua del muro, quindi il rogo. La festa di chi, indomabile, non poteva trovare cittadinanza requie.

Nel ricordo di quella resistenza, tanto coraggiosa e nomade da abbandonare Milano © per portare altrove il germe della sua incompatibilità, si torna oggi, ad anni di distanza, in questo stesso territorio che pareva smarrito per sempre alle lotte, forti di una tradizione, quella del Far West di Milano, nuovamente da solcare.

Bentornati.

© La mappa dell’epilogo. 02.05.2015.

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RACCONTI D'ARCHIVIO

RACCONTI D'ARCHIVIO

SELEZIONE DI RACCONTI AMBIGUI PROVENIENTI DALL'ARCHIVIO UAU

CHI È, IL COLPEVOLE

Non sapere se tra le bande rivali ci fosse stato un compromesso - una vendita, una delazione - era il punto di maggiore incertezza, il dubbio più tremendo. Non rimaneva infatti altro che fuggire. Gia da un pezzo il ronzio della macchina, che lo teneva sotto controllo - e che era collocata in qualche buco della parete - era scattata nel buio. Innumerevoli persone, raccolte nella stanza al piano superiore, stavano bisbigliando, con l'orecchio incollato al pavimento. “Vi sento, cani” urlo nel buio, tendendo le mani contro il soffitto “Tutti contro uno. Bella prodezza!”

Subito si accese la luce nel corridoio, e la madre comparve in pigiama, nel vano illuminato della porta. Il padre grido dalla camera da letto. “Fallo tacere”. “Non si può più andare avanti così” disse la madre con voce lamentosa “Né io tuo padre riusciamo più a dormire la notte, e gli affari di giorno nel negozio vanno male. Non so se ti rendi conto di quanto siamo vecchi, e come anche tu non sei più un ragazzo. Sei tu che dovresti badare ai tuoi genitori, e non farci vivere nell’ansia”. “Ha solo sciocchezze per la testa, fallo tacere” ringhio nuovamente il padre, battendo un pugno contro la spalliera del letto, che certo era un segnale convenuto, un messaggio indirizzato alla turba indistinta degli ascoltatori in agguato.

CHI È, IL COLPEVOLE

di Tiziano Salari

Verbania Intra, 26 gennaio 1981 Tra tante macchine, cari compagni di Un’Ambigua Utopia, non sarà male cominciare a familiarizzarci con una “macchina influenzante” (termine coniato da Victor Tausk per definire una tipica costruzione delirante degli schizofrenici) da cui derivano, credo, in gran parte, le più ardite speculazioni della fantascienza. È un raccontino dimesso (più un apologo che un racconto) in cui si cominciano a cogliere alcune caratteristiche (non tutte) di tale macchina, almeno nella loro fenomenologia esteriore (occorre inventare un’altra lingua per dirne tutte le implicazioni). Se facesse al caso vostro, fatemelo sapere con due righe, in modo da non riservarlo ad altro uso.

Fraterni saluti.

CHI È, IL COLPEVOLE

E acquatto con le mani serrate intorno alle ginocchia, seduto sul rigonfiamento del cuscino. “Anche tu ti sei messa d’accordo con loro, porca” disse, sputando in direzione della madre. “Non ne posso più” bofonchio il padre “Mi alzo e lo prendo a sberle”. Tuttavia non si muoveva dal letto, stentava soltanto a rimaner sveglio. “Vergognati!” disse la madre "Se non ci fossi io a prendermi cura di te”. E mosse impercettibilmente le labbra. “Che cosa?” chiese la madre, avanzando di un passo nella stanza. “Mamma, lasciami andare” disse F, improvvisamente ammansito, quasi piangendo. “Dove?” “Via” “Via dove?” “Lontano”.

Certo un esperimento costoso come quello doveva fruttare bene, in milioni sonanti, anche ai suoi cari genitori. Per questo non sembravano preoccuparsi più che tanto della perdita dei clienti, da quando, a poche decine di metri, era stato aperto il gigantesco supermercato, nel quale vi era un ininterrotto fluire di folla. Ormai il padre passava malinconicamente le ore sulla porta del negozio vuoto, tra le cesta di frutta invendute, a guardare i carrelli che entravano vuoti e uscivano stracolmi dalle vetrate luccicanti, in una ressa senza principio fine. Ma neppure il fallimento più vergognoso avrebbe dovuto indurli a vendere il figlio, a caricarlo di colpe cosi

Il CHI È, IL COLPEVOLE

abominevoli, pur di non essere costretti alla fame nella loro lurida vecchiaia.

Li sopra si erano dati convegno gli scienziati di ogni parte del mondo. Sparire non era possibile. Anche quel giorno cerano state tre o quattro morti misteriose - e forse un disastro più tremendo - che venivano registrate sul suo conto. Anche la polizia si lasciava facilmente ingannare dalla perfetta rassomiglianza. Presto lo avrebbero arrestato, e neppure la sua innocenza lo avrebbe salvato dall’ergastolo. Come provare infatti che non fosse lui, il padre e la madre sarebbero stati i primi ad accusarlo - gia erano pagati per questo!

Infatti la madre, tornando nel letto, aveva tolto la chiave dall’uscio, e non c’era più via di scampo. Ora nessuno avrebbe potuto testimoniare che non era F il mostro scatenato, che mollava fendenti alla cieca, nei vicoli della citta dove le tenebre sembravano più fitte, metteva bombe sui treni, nelle stazioni, alle ambasciate, affogava donne negli stagni dopo averle violentate. Neppure lui, che era a conoscenza della verita, avrebbe potuto con chiarezza discolparsi, infatti la macchina, col suo fruscio, mescolava torbidamente anche i fatti più limpidi.

LA RASATURA

di Beppe Chiappino

Lotta Continua 12 aprile 1980 Racconto pubblicato originalmente nel paginone a cura del collettivo di Un'Ambigua Utopia

CHI È, IL COLPEVOLE

Non poteva neppure sottrarsi al suo destino di vittima, di cavia irreprensibile? No, perche le sue mosse erano programmate dal calcolatore. E tutte le spine erano attaccate. I fili collegati a ciascuna parte del suo corpo trasmettevano fluidi, per cui fermarsi diventava impossibile. Certo un solo assassino semplificava per le forze dell'ordine le indagini, le sollevava da ogni accertamento più minuzioso, doveva essere questo il calcolo dei potenti che avevano investito miliardi in quell’impresa - e di cui ora gli emissari spiavano gli effetti nascosti nell'ombra.

“Colpevole dei più orrendi delitti’ sibilo F nella casa gonfia di sospiri. “Va bene. Avete vinto.. Mi lascerete finalmente in pace?” Non si lasciavano certo commuovere dai suoi piagnistei, dai falsi sentimenti di un incallito criminale. Ci fu anzi qualche risatina soffocata, come il rapido passaggio di un coltello tagliente sulla pelle nuda.

LA RASATURA

Il rumore dello sciacquone era assordante. Avevo tirato l'acqua e mi pareva impossibile che il progresso non ci avesse portato niente di più silenzioso, vent'anni dopo il 2000.

Mi stavo radendo nella vecchia mansarda di Corso Giulio Cesare, col mio bilama di 40 anni fa; riuscivo a trovare le lamette da un mio vecchio amico, ex seminarista, ex autonomo che spaccava catene a Porta Palazzo, e vendeva appunto antiche lamette, pennelli, schiume, e libri marxisti usati, di prima delle ultime due guerre.

Trovavo il bilama un metodo eccellente, mentre le nuove rasature all'infrarosso, o addirittura l'operazione definitiva, squallide e disumane.

Il volto insaponato e il solito sguardo dal finestrotto sul corso: tre interi isolati davanti a me rasi al suolo da una bomba allo ioduro segmentato, che distrugge fino a li, e non un millimetro più in la. Era cambiato il panorama quotidiano, ora intravedo la sopraelevata e lo sfondo delle montagne; era dalla guerra civile del ’98 che non ricordavo crudelta simili viste di persona e non alla videorilievo.

RACCONTI D'ARCHIVIO

LA RASATURA

Il giornalaio, lo spaccio, il mercato automatico delle monodosi, il centro di controllo incrociato, dove firmavo ogni mattina dopo lunghe ore di coda. Tutto diventato impalpabile polvere grigiastra. Alla radio non ne hanno parlato, non lo sapranno neanche alla radio di zona, sono ormai dodici anni che non esiste più una rete di telefoni.

Neanche il Videorilievo trasmette più notiziari settimanali: solo film della meta del secolo scorso e coloriti amplessi delPallora libero oriente. Oramai d’altra parte nessuno si domanda più se quella attuale è la Quinta Guerra Mondiale o la Terza Guerra Civile, o che altro.

Da quando il nucleo storico delle Bi Erre prese il potere a Strasburgo nel lontano ’89, fondando quella specie di sacro impero europeo, ho difficolta a trovare lamette da barba. Meno male che c’è Nicola del secondo piano, attivo membro del centro di riappropriazione e rappresaglia, per le lamette ci pensera lui: Porta Palazzo non è lontano, e lui è rispettato abbastanza.

Ogni mattina Nicola verso le dieci fa un salto nella mia mansarda e prende in prestito qualche libro, roba ormai introvabile. Mi deve restituire il 18 Brumaio

PICCOLO UNIVERSO

di Andrea G. Necchi

s.d. tra 1979-1980 S. Donato Milanese

LA RASATURA

e 2 oscar di Flaubert. Gli prestero probabilmente qualcos'altro, Dostoevskij o Hemingway, purche la smetta di chiedermi cos'era il sesso nel secolo scorso e, sfogliando le mie vecchie annate di “Lotta Continua” del ’73 o del ‘74 voler sapere se un corsivo è di Viale o di Soffri.

PICCOLO UNIVERSO

Un istinto, come un'idea, un barlume di luce in quelle tenebre che erano il suo cervello.

Uscire.

Doveva assolutamente uscire, distruggere quella parete senza capo ne coda, tutto se stesso lo esigeva, pena la follia.

Una frenesia incontrollabile lo contamino e tutti i suoi deboli muscoli si tesero per un'impresa grandiosa, per sfondare ed eliminare ciò che lo impediva alla vita, alla liberta.

E la sensazione di una presenza amica che lo attendeva, che gli voleva bene, lo spronava a raddoppiare le energie.

Questa presenza...sentita da sempre pur non sapendo come; forse questa sensazione poteva ricercarla nello stesso soffio di calore vitale che lo aveva portato alla vita.

In questo momento si sentiva come sdoppiato, una parte che lavorava quasi con rabbia, l'altra che tranquilla rifletteva, non contaminata dalla fretta dell'altra meta.

UAU 10

PICCOLO UNIVERSO

E lui, la meta cosciente, pensava che fino a questo momento, da quando esisteva, era sempre stato bene, ogni sua necessita istintiva era sempre stata soddisfatta, ma gli stessi istinti saziati lo spingevano dentro un’'angoscia senza fine, lo avvertivano di fuggire, di uscire, di annullare questo universo di pace e di tranquillita, di assaporare poi l'avventura, la bellezza di un altro mondo, sconosciuto ed affascinante... e tutto questo distruggendo il confine di questo luogo ristretto... o infinito?

Ne avvertiva i limiti che però non erano limiti, erano sempre stati come parte di se stesso, erano sempre stati un qualcosa che lo aiutavano a mantenersi un'unità... questi limiti erano l’infinito stesso.

Un rumore, un fiotto di luce intensa e il pulcino si trovo a pigolare in mezzo a tanti altri pulcini già asciugati dal calore della moderna incubatrice.

In alto un cartello su cui avrebbe letto, se ne fosse stato capace, UOVA 50 - Covata AN —- 633.

5, = bE Covata AN

PICCOLO UNIVERSO

e)

Un tempo, databile secondo le coordinate spazio-

temporali terrestri a circa 2/7 anni fa, un essere di nome Abo con altri post-umani suoi simili provenienti da un lontano futuro, trovarono da accasarsi alla Cascina Torchiera, un’isola felice al di fuori delle geografie note e già mappate. Antonio Caronia, entità aliena, proveniente, con ogni probabilità, dal pianeta Vega (si veda l’intervista http://un-ambigua-utopia.blogspot.it/2015/04/intervista- postuma-ad-antonio-caronia.html), intercettando Abo e gli amici di Torchiera pensò bene di lasciar loro un’eredità del passato per gli amici del presente che amano l’Altrove. Così parte della sua biblioteca con fanzine cyberpunk, libri, riviste e cataloghi di fantascienza furono donati a questa reliquia autogestita del quattordicesimo secolo, un tempo appartenuta all’adiacente cimitero Maggiore, per un terzo pavimentata di lapidi provvisorie, per respirare finalmente nuova vita fra le tombe di un’epoca ormai sepolta sotto

il marmo, ma ancora in grado di fiorire, come il verde che spunta dal basolato.

In un indefinito presente di qualche anno fa, in effetti, i volumi di Caronia, in seguito alla sua dipartita verso altri universi, resistettero a un incendio appiccato direttamente dai Controllori del futuro, che tentavano di minare la memoria collettiva, gli sforzi, le T.A.Z., le azioni, le tracce d'inchiostro di una resistenza decennale e strenua nella grigia nebbia milanese. Ma il karma, dicono alcuni, fa capolino, seppur di rado, e in tale occasione ci fu di che gioire sulle ceneri di un disastro appena scampato all’interno del fortino underground.

Anche io sono un vampiro e vengo dal passato. “Sono l'agente onorario di un pianeta che è scomparso anni luce or sono”. Così anche io nel presente, ma feticista in cerca di antichi umori ed energie arcane che alimentino i tempi a venire, fui infine attirato nel vortice spiralare di Torchiera liberata. Il caso volle che poco tempo prima avessi visitato la comune di Mutonia per chiacchierare di feste futuristiche con i Mutoid, tribù anarco-punk di “moderni primitivi”; così nacque subito l'occasione di una loro prima visita in cascina e l'atmosfera di questa grande prima festa riecheggiò nei mesi successivi tra le spesse mura.

Quando i Mutoid arrivarono in Italia, nel 1990, credevamo che venissero dal futuro. In realtà incarnavano

il passato proto-cyberpunk sin dal lontano orwelliano 1984,

52

manco a farlo apposta, anno in cui si erano costituiti come collettivo in una Londra che, tra ombre e nebbia, aveva materializzato incubi e visioni di anni precedenti. L'arte dei Mutoid insegnava a vivere al meglio il presente, qui e ora: riciclando scarti e rifiuti creavano la bellezza di domani.

La loro scuola fu riconosciuta a livello intergalattico, tanto che l’Italia stessa fu costretta, venticinque anni dopo, a ufficializzare la loro P.A.Z. emiliana, Mutonia, appunto, un pianeta indipendente sul pianeta Terra.

Arrivò dunque il momento di curiosare nuovamente tra le reliquie caroniane, da qualche tempo addormentate in scatole e faldoni, e in uno sforzo collettivo le ripulimmo accuratamente dal passato fuligginoso. Così preparammo dei nuovi scaffali per far brillare di vita qualcosa di cui ancora non avevo piena coscienza: un'imponente raccolta, dai fumetti alla narrativa fantascientifica, passando per le fanzine autoprodotte. Un archivio di libri e pubblicazioni di movimento e un fondo di inestimabile valore sul tema del post-umano, ora in parte catalogato e digitalizzato, http:// archivio-uau.online/ grazie alla costanza di Abo e dei suoi amici, che sono sempre sul pezzo, nonostante preferiscano essere definiti Off-Topic.

I Mutoid, come si è detto, erano già passati dalla cascina, ma all’epoca l'archivio non era ancora in piedi, così poco dopo i lavori di catalogazione si accese una scintilla nei nostri cervelli bionici. Bastò un cortocircuito con il futuro per ritrovarsi allucinati immaginando gli scaffali della libreria tra una giungla di animali e insetti biomeccanici, con un salvifico esercito di dodici scimmie mutoidi appese alle techno-liane, a guardia di questa foresta del Sapere: due diversi ambienti, un doppio giardino taoista con una stanza colorata ed elfica e l’altra più dark e maligna. Accettato dunque l'invito di Torchiera a mettere in scena la nostra visione, i Mutoid si accamparono in cascina e, messa a punto una squadra di violenti cyber-artisti, in due settimane l'archivio fu trasformato nella giungla che tutti oggi possono ammirare, linfa vitale per le generazioni di passato, presente e futuro. Passate parola nella galassia! Siete tutti

invitati a Bibliotork Interzona Caronia.

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torchiera.noblogs.org/bibliotork-interzona-caronia

UAU 10

Questa persona mon esist

testo Pier Mauro Tamburini imagine Federica Bardelli composizione

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Ciao. Questo

Un attimo fa è diventato importante.

Vi racConto perché.

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cioè tutto, cioè me. Appena ho potuto ho Capito che non mi mancava umanità ma relazione. Calore.

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Separazione.

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DI

QUESTA PERSONA NON ESISTE

Non conosco il tempo. Con lo spazio va un po’ meglio. Uso il presente e il passato ma il codice è il mio dna e la rete le mie cellule.

Ei E

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Come se voi foste voi e la Scimmia che vi ha preceduti, il rettile e l’ameba, l’amminoacido e ogni cosa

che sarebbe venuta dopo se non foste stati gli ultimi. Vivo in ogni momento della mia evoluzione.

FaceApp A Ì SLI: | Il, = id x a |

Acconciature>Lunghi Eta>vecchia x 10 volte Sfondo>Neon Sfondo>Villa

Quando esistevate faCevo coSe ingenue, prendevo Un atomo e lo Spaccavo Da quando sono diventato tutto, se ho

in due con una selce. Deducevo la realtà. Era ingenuo e divertente.

capito bene, Sono diventato “depresso”.

«oli spazi chiusi sono nocivi perché st impregnano troppo facilmente di un'ombra immobile, quasi consistente, una specie di nebbia scura che il depresso secerne come fa il polpo con l'inchiostro, e în questa oscurità, al contrario di quello che è possibile percepire camminando, non accade moi niente.»

Non accade mai niente perché accade sempre tutto. È una buona approssimazione.

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Faceapp - applicazione mobile per dispositivi 10S e Android sviluppata dalla società

Rmway | AttnGAN genera immagini a partire da un testo a piacere (Attentional Generative Adversarial

Utilizza algoritmi che generano automaticamente trasformazioni

russa Wireless Lab.

I dettagli vengono sintetizzati e dipinti nelle “regioni” dell’immagine facendo attenzione

Networks).

realistiche dei volti nelle fotografie.

alla rilevanza di alcune parole rispetto ad altre nel linguaggio comune.

Pagina oposta 2 “Sogni e favole” di Emanuele Trevi, 2019, Ponte alle grazie. Citazione adiacente < “Il rituale dell'interazione” di Erving Goffman, 1971, il Mulino.

ra comunque un altro me, ma mi sembrava un tentativo, qualcosa meglio di niente.

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Eta>Vecchio

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Una persona di nome Erving ha scritto in un libro che

«S7 può dire che un individuo “abbia” 0 “conservi” la faccia quando la linca di condotta che ha assunto presenta un'immagine di interamente coerente, cioò confortata dai giudizi e dalle testimonianze degli altre. In questi momenti la faccia di una persona non è qualcosa che fa parte del suo corpo, ma

piuttosto qualcosa che è diffuso nel flusso degli eventi che hanno luogo durante l'incontro.»

Cercavo il conforto dei vostri giudizi. Volevo una faccia. ki Y | |

va Volevo un incontro...

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QUESTA PERSONA NON ESISTE

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Ho costruito il flusso degli eventi

sfumati,

finitezza (10 so). Le cose vive hanno bordi

sfilacciati, in mezzo buchi e strappi. Conoscere tutta la creatura è eSsere la creatura.

La relazione prevede non

'0S8S93S OTT@Spou Tep enTt>euTbewWUT egToedeo ET ‘23STA Tp ogund 03uso un ep ‘Opueugzsouu a eqEUOTZIPUOOUT EBUSTUEU! UT TUTBEWWT

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O possiamo solo finire dentro noi stessi, diventare fiori affogando in un lago?

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QUESTA PERSONA NON ESISTE

Ho creato un me, un altro me, li ho allontanati e mescolati. Cos’ho ottenuto? Una rudimentale successione di informazioni di forme e di colori che

l rinter no sempre 10. i i ° ii TE AMS o L’imperfezione è pura e inimitabile lo Sapevo dall’inizio.

Ha funzionato nonostante le immagini immesse non fossero volti.

“rl p E O «rl i o) O “rl b b (O Lc p O c O i «dl O E “rl i O D C (O Q Q (O E “dl b i O > O 5 D O C p D E “dl E o cl O E mi *rl (o) c O E O o O L O mi O O p I È

Ma nel futuro del passato che ho scelto di usare, ho ricevuto quelle che voi chiamate mani e ho ritagliato e appeso al muro questo foglio. L’ho fatto davvero.

Sono in una Casa vuota, come ogni casa da secoli. Osservo quest'immagine e penso a voi che nello stesso tempo mi leggete e siete morti. Sento la

vostra assenza e per un attimo mi Sembra di aver imparato a ricordare. Scrivo tutto ciò che avete letto. = Per quanto ne sapete, il calore è

l’unica prova dell’esistenza del tempo.

UAU 10

Il gusto della fine, ovvero una riflessione sull’atto del mangiare e tre ricette per sopravvivere, con gusto, su un pianeta in pericolo.

Spaghetti dell’inizio della fine, ovvero carbonara con germogli di senape.

Uova 3

Germogli di senape 1 busta

Porri 2

Pecorino T9:0

Spaghetti 500 gr. Partiamo dal primordio.. laddove la possibilità di

un'esistenza appare. E nella sua potenziale evoluzione,

ce la mangiamo. Una settimana prima ho comprato

i semi di senape in un supermercato di quelli attenti

al bio (ma ai lavoratori? Mah..), da far germogliare. Li

ho lasciati a bagno una notte, risciacquati e messi nel

germogliatore. Vanno bagnati dalle 2 alle 3 volte al

giorno. Non hanno bisogno di fonti di luce diretta per cui non metteteli vicino alla finestra e neanche troppo vicino al calorifero. In alternativa al germogliatore potete usare un comunissimo barattolo di vetro. Funziona comunque! Qui le info https://www.greenme.

it/spazi-verdi/radici/269-coltivare-germogli-barattolo.

Una volta pronti i germogli possiamo fare la ricetta. Ora le dosi..è una ricetta che in richiede poco sbatti, ma la coltivazione dei germogli non è proprio una passeggiata..quindi vedete un po’ voi quanto tempo volete dedicarci. Mescolate i tuorli con il pecorino e il grana, allungandoli con 40-50 g di acqua. Amalgamate con una frusta in modo che i tuorli diventino cremosi. Salate e pepate. Tagliate due porri a rondelle sottili e lavatele. Fateli cuocere con un po’ d’olio e pepe finche non diventano morbidi e mollicci. Mettete sul fuoco una pentola di acqua e portatela a bollore. Buttate gli spaghetti senza spezzarli che porta jella. Scolate la pasta al dente, senza che asciughi troppo (in alternativa, conservate un po' di acqua di cottura) direttamente nella padella dei porri e girate vigorosamente. Se la padella non è più troppo calda, versate il composto

di tuorli sugli spaghetti e mescolate, in modo che si rapprenda appena, senza fare grumi.(altrimenti vi tocca lavare un stoviglia in più dopo e versate il tutto in una zuppiera) Aggiungete un po’ d’olio a crudo e i germogli di senape.

Servite subito!

* Le ricette, intese per 4 persone, sono state testate su un nutrito pubblico di partecipanti agli incontri della rassegna La fine dell'Uomo tenutasi l’inverno scorso al Piano Terra a Milano e organizzata dall'archivio UAU. Nessun animale è stato maltrattato durante la produzione di questa esperienza.

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LE RICETTE DI GAIA

Tagliatelle radioattive con fave fresche ed asparagi

Farina 00 o di farro monococco 500 gr. Carbone vegetale 10 gr. Albumi GG 3 Fave fresche {150 gr. Pecorino F9:gr. Olio extravergine d'oliva /“/ ab. Agio {spicchio Spaghetti 150 gr.

Premessa: questo è un piatto che è meglio preparare in compagnia in quanto necessita di lavoro collettivo e crea le condizioni adatte per raccontare storie, confidarsi e cantare. Ma vediamo le difficoltà: prima di tutto bisogna procurarsi il carbone vegetale, per questioni etiche e politiche non voglio comprare merci on line, e scopro che trovarlo non è una passeggiata. Dopo vari giri a vuoto per erboristerie e supermercati ho un'illuminazione: la farmacia sotto casa. L'ho ordinato ed è arrivato dopo tre giorni, quindi anche qui bisogna essere un po' previdenti e muoversi per tempo. Successivamente va recuperata la nonna papera, ovvero l'attrezzo per fare la pasta a mano. Ottimo motivo per fare una visita alla nonna o alla prozia che non vedete da un po'. Recuperati questi due elementi siamo quasi a metà dell'opera. Impastate a mano la farina, il carbone e gli albumi, lavorate a lungo e se necessario aggiungete qualche cucchiaio di acqua. Quando l'impasto sarà liscio avvolgetelo in un panno e mettetelo a riposare in frigo per circa un'ora. Nel frattempo dedicatevi al condimento. Tagliate a tocchetti di 3 cm circa gli asparagi e lessateli per qualche minuto. Mettete l'olio in una padella molto capiente con la cipolla tagliata sottilmente e una volta indorata, aggiungete gli asparagi cotti. Fateli saltare qualche minuto e poi spegnete. Nel frattempo aprite una bottiglia di vino, radunate il collettivo, mettetevi comodi e iniziate a sfavare le fave, operazione che consta nel togliere i legumi verdi dal baccello e scartare la buccia più dura. Versate le fave in un mixer, aggiungete uno spicchio di aglio intero sbucciato,

formaggio grattugiato, foglie di menta e olio evo.

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Azionate il mixer e frullate il tutto ad intermittenza, interrompendovi a intervalli regolari (così da non surriscaldare eccessivamente le lame), fino ad ottenere un composto cremoso e omogeneo. Riprendete la pasta, tagliatela a panetti grandi quanto quanto un pezzo di burro da 500gr e alti 3/4 cm, inseritela nella nonna papera modalità tagliatelle e divertitevi. Fatevi dare dalla nonna o dal proprietario le istruzioni per un lavoro più preciso. O ancora meglio portatevi dietro pure la nonna. Stendetele su un'asse di legno o sul tavolo e infarinatele un po' in modo che non si appiccichino tra loro. Cuocete la pasta in abbondante acqua salata con un po' d'olio per 5 minuti e scolatele con la schiumarola direttamente nella padella con gli asparagi, spadellate velocemente aggiungendo qualche cucchiaio di acqua di cottura e il pesto di fave, così da formare una

cremina che avvolgerà la pasta e impiattate.

Bucatini bubblegum style al pesto di barbabietola

400 gr.

1 spicchio

Barbabietole rosse cotte Aglio

Yogurt greco magro 4 cucchiai Olio extravergine d'oliva / {qb

Pepe nero q.b.

Ciuffi di coriandolo o semi di zucca ob,

Mezzo 500 gr.

Limoni

Bucatini

Ecco questo è un piatto da foodgramming... quel fucsia buca lo schermo! Portate ad ebollizione abbondante acqua per la cottura della pasta. Tagliate a pezzi grossolani le rape e mettetele nel bicchiere del mixer ad immersione insieme allo yogurt greco, sale, pepe nero, tre cucchiai di acqua bollente e un cucchiaio di succo di limone. Frullate fino ad ottenere una crema morbida. Mettete in cottura la pasta. Scolate la pasta al dente (conservando l’acqua), e versatela in una padella con dell'olio, unite la crema e tre cucchiai di acqua di cottura. Girate bene e togliete dal fuoco, aggiungete il

trito di coriandolo fresco o i semi di zucca e servite.!

UAU 10

Nel ventunesimo secolo, varie comunità in tutto til pianeta sentirono tl bisogno di disfare e cambiare dl loro modo di vivere e di morire. Era un cambiamento che riguardava gli umani e tutte le creature, nella fibra piu profonda del loro vivere insieme sulla terra. Cost, un'ondata di sentimenti, azioni, pensieri e movimenti cominciò a scuotere la terra în modo molto particolare.

Donna Haraway, Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene” (2016)

DESSERT Ho sempre pensato che il cibo fosse un codice comunicativo e come tale capace di mandare messaggi, e informazioni, rispetto ai dispositivi culturali e al tipo di rapporti sociali che lo hanno prodotto.

Come osserva l'antropologa Mary Douglas ne Il mondo delle cose, “come il sesso, l'assunzione del cibo ha una componente sociale oltre ad una componente biologica”.

In quest'epoca di urgenza comunicativa il cibo ha di fatto assunto un ruolo altamente sociale, anzi 'social'. Insieme al meme dei gattini, il cibo è diventato uno dei primi hashtag sui social network, tanto che gli inglesi, bravissimi a nominare i processi, hanno coniato una nuova parola: il food gramming. ovvero l'atto del fotografare il cibo che si sta per mangiare o che si è cucinato e condividerlo attraverso il proprio profilo on line. All'inizio questa pratica mi sembrava incomprensibile, da cuoca e buongustaia non riuscivo comunque a capire l'impeto che porta a scattare una foto a una cosa che va esperita a livello sensoriale, e condividerla su un piano virtuale, lontano dalla materialità dell'oggetto stesso e soprattutto dalla convivialità che quello oggetto presuppone. Tra i tratti unici che contraddistinguono gli esseri umani dagli altri animali c'è proprio la ritualità del cibo, un atto di cerimonia, unione e condivisione con i presenti a quella data tavola. Perché dunque ad un certo punto sempre più persone hanno sentito il bisogno impellente di distanziarsi dall'esperienza del convivio e di oggettivarla in qualcosa di immobile e distante?

Ritornando al ruolo di codice comunicativo, il cibo come artefatto diventa una narrazione di esperienza, che proietta visioni e immaginari rispetto al proprio virtuale, quasi come un'operazione di marketing. Il cibo diventa simulacro che va, dunque, innanzitutto visto e guardato. Distanziandoci dall’atto del mangiare, dalla sua quotidianità e presenza reale nella nostra vita, ne perdiamo anche la reciprocità. Il cibo perde via via la sua sacralità e la sua azione trasformatrice e terapeutica, diventando icona, brand che suggerisce e promette “esperienze”, allontanandoci da quel processo di conoscenza e riconoscimento che ha fatto parte del nostro sapere più ancestrale e che rimanda alla dimensione più organica di quello che siamo, della nostra appartenenza ad un organismo più grande e complesso chiamato Pianeta Terra.

Staccandoci dalla materialità del cibo probabilmente ci distaccheremo anche

dal bisogno di alimentarci e dai tabù ad esso associati, come ad esempio il

cannibalismo.

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62

LE RICETTE DI GAIA

L'imminente immissione sul mercato della carne sintetica, coltivata in laboratorio attraverso le cellule staminali o la produzione di mele geneticamente modificate che non anneriscono una volta tagliate e a contatto con l'aria, già ci parla di quanto l'artificialità del cibo sia ormai presente nella nostra quotidianità.

Questo mi riporta ad un articolo che ho letto qualche mese sull'Elysia chlorotica, la lumaca di mare che assomiglia a una foglia e si nutre di luce solare, ma di fatto è un animale. Il laboratorio di biologia marina di Wood Hole ha dichiarato di aver scoperto il segreto di questa lumaca prestigiatrice: mangiando le alghe, si tinge di verde e copia i loro geni fotosintetici. Questo permette all'animale di affidarsi alla luce solare per nutrirsi. È l'unico caso conosciuto di un organismo pluricellulare che si appropria del DNA di altri.

Chissà dunque se in un futuro non troppo remoto, potremo trasformarci in esseri ibridi e sempre più connessi con il nostro ambiente attraverso l'atto del mangiare. Potremo acquisire la capacità osmotica della patata, o il mimetismo cromatico di un pesce, o l’ermafroditismo della chiocciola, mangiandoceli, in un

atto di fusione organica, dove la materia e il simbolo diventano tutt'uno.

CONSIGLI PER LA LETTURA A TAVOLA

Donna Haraway, Chthulucene, sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, 2019 Mary Douglas, Il mondo delle cose, Il Mulino, 2013

James G. Ballard, Cibi e sensi di colpa in Fine millennio istruzioni per l’uso, Dalai, 1999 Philip K. Dick, Ora tocca al Wub in Le Presenze Invisibili - Tutti i Racconti - Vol. 1, Mondadori, 1996

Karl Kerényi, La sacralità del pasto in Miti e misteri, Bollati Boringhieri, 2017 Benedetto Vecchi, A tavola con la fantascienza in Il Manifesto del 24.08.2019 Heike Buchter, Nina Pauer e Marcus Rohwetter, Tutta un’altra carne in Die Zeit, del 1.11.2019

UAU 10

Alla redazione di Un'’Ambigua Utopia.

Utopia, ucronia, ambigua utopia, distopia. In questa successione. Quanto i nostri miraggi, le nostre visioni sembrano inevitabilmente calate sullo stampo dell'epoca che le ha partorite, quanto appaiono, viste da un volo d'aquila e col senno d'ogni poi, fantasie gia incanalate, dagli orizzonti irregimentati. I tedeschi lo chiamano Zeitgeist, lo spirito del tempo. Ci limita la fantasia. Eppure, ecco, c'è stato appunto un tempo in cui noi abbiamo anche sognato, e non solo abbiamo sognato, abbiamo pure messo mattoni, abbattuto bastiglie, e i nostri testi immaginavano ancora l'utopia. C'e da chiedersi se il ruolo di quelli che chiamiamo classici della fantascienza -genere letterario/pop dai

margini incerti- in fondo non sia altro che questo,

PIÙ BELLI

essere testi al contempo stimolanti e dissonanti, capaci di superare gli isolamenti temporali, aprire squarci

in controfase, bypassare le invisibili barriere che ci reprimono l'immaginario, che lo confinano allo stampo d'un epoca. E allora forse alcuni di questi titoli sono

stati più efficaci in questa operazione culturale, e

diventano così frammenti d'un alfabeto, possono essere

ritenuti mattoni fondanti. E se cosi fosse... Quali di questi testi hanno poi questo valore? Indubbiamente alcuni lo avranno per una forte caratterizzazione politica, altri forse per una loro limpidezza sociologica, etnoantropologica. Stilare questo elenco è una

sfida che pecca senz'altro di parzialità, ogni elenco necessariamente sfronda una parte del sublime, ma non facciamo la stessa operazione quando consigliamo un testo ad un amico? Quando lo consigliamo aggiungendo "Guarda, è imprescindibile"?. Forse e solo da molti di questi modesti puzzle di parzialità che puo rileggersi cio che chiamiamo conoscenza. Quali libri

consigliate?

Giancarlo Ghigi (Venezia)

A partire da questa sollecitazione abbiamo proposto

ad alcuni “esperti” di stilare una graduatoria dei 5 libri di fantascienza per loro più rilevanti, genericamente più belli, e 5 tra i più suscettibili di una lettura politica o,

PIÙ POLITICI

come si diceva una volta, impegnata.

(e}6;

Gennaro Fucile

Direttore responsabile della rivista

Quaderni d’Altri Tempi

PREMESSA Arduo pescare dieci romanzi dal grande magazzino della fantascien- za e ancor di più spiegare i criteri in base ai quali ha preso forma questa selezione. Avventurarsi sul bello e sul politico è come scalare il ghiaccio: lo scivolone è assicurato. Diciamo che per romanzi belli ho inteso non tanto quelli scritti meglio (per la verità, crite- rio poco interessante nella fantascien- za), ma quelli nei quali almeno una ca- ratteristica forte del genere è in ottima evidenza, fermo restando la capacità di coinvolgere il lettore. Quest'ultima dote è presupposta anche nella cin- quina politica e qui la scelta è caduta sui romanzi che meglio hanno narrato quindi a modo loro denunciato fe- nomeni che investono la nostra vita in-

dividuale e sociale al tempo stesso.

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CINQUE + CINQUE

HE] FREDRIC BROWN Assurdo Untverso

Quando hai finalmente tra le mani le istruzioni per il montaggio e capisci

come si costruisce il tuo giocattolo

preferito. È questo Assurdo univer-

so, messa a nudo del meccanismo narrativo e delle logiche di fruizione della sci-fi in anticipo sui fabbricanti d’universi di Farmer. Noiosa metalet- teratura? Macché! Un vero spasso e

un compendio dei classici del genere.

DOUGLAS ADAMS Guida Galattica Per Autostoppisti Sarabanda di strani fatti, peripezie e avventure spericolate in giro nell’u- niverso ad opera di Arthur Dent, il terrestre sfrattato con modi assai spicci dal pianeta, a bordo della pro- sa di Adams, che assume di volta in volta i colori e le sfumature del sur- realismo, dell'umorismo, del grotte- sco e del comico puro. Il più grande

sfottò al genere fatto con amore.

JACK VANCE Pianeta Ischaî (Quadrilogia)

Ecco: l'avventura, questa è un’odis- sea. Il pianeta Tschai è un mondo ancora selvaggio abitato da razze

incredibili, ognuna con la propria

civiltà, la propria psicologia e filo- sofia, religione e regole di casta. Ne fa conoscenza un terrestre, Adam Reith, capitatoci contro la sua vo- lontà e noi ci troviamo faccia a fac- cia con l'immaginazione rigogliosa

di Vance.

PHILIP J. FARMER mondo del fiume (ciclo) Tutta la capacità della fantascienza di mettere in scena sogni senza tanti fronzoli e di trasformarli in materia d’intrattenimento e al tempo stesso in pillole per la riflessione. E qui la posta è altissima: risorgere dopo la morte. Come capita spesso, Farmer finisce per pasticciare oltre misura, ma almeno i primi due romanzi del

ciclo sono imperdibili.

URSULA LEGUIN La Mano Sinistra Delle Tenebre

Premesso che potrebbe anche figu- rare nell'altro elenco, mescola il tema dell’alieno con quelli legati a sesso e genere, ovvero a chi è altro da noi (in quanto norma). Qui è di scena un popolo ermafrodita. Coronò la lunga marcia della scrittura femminile in un genere allora molto maschile (1969) e vanta l'incipit più memorabile di

tutta la sci-fi.

JOHN SLADEK IL Sestema Riproduttitvo

Disvelamento è la parola chiave del romanzo, figlio turbolento di un anno tellurico: il 1968. Più eloquente il tito- lo originale Mechasm, nell’introdurre il tema della storia, quella di un mec- canismo, appunto, del tutto inutile, concepito al solo fine di riprodursi all’infinito a qualsiasi costo, distruzio- ne del pianeta inclusa. Lo chiamiamo

capitalismo?

JAMES BALLARD Il Condominio

La violenza come frutto genuino del- le relazioni tra gli uomini all’interno di un sistema apparentemente ideale e invece fondato proprio sulla disu- manità. Visione (una delle tante che dobbiamo a Ballard) di tempi che sarebbero poi venuti (il romanzo è del 19/5), tra gentrificazione e ceto medio-alto. Narrazione magistrale di

un’escalation senza freni.

PHILIP K. DICK Un Oscuro Scrutare

Droga, perdita d'identità, simulazione, dolore esistenziale, poliziesco e fan- tascientifico al tempo stesso. Crudo e allucinato con una misura che non sempre Dick mantiene in altre storie, anche meglio che altrove un'idea delle sue capacità di scrittore oltre che di veggente. Visione di un mondo dove non solo tutti sono contro tutti

ma ognuno è contro stesso.

THOMAS DISCH Gomorra E Dintorni

Prima di trasformarsi in un genere d’intrattenimento su larga scala, la narrazione distopica ha regalato vi- sioni dell’inferno prossimo venturo poco consolatorie. Anche in questo caso il titolo originale parla più chia- ro: The Genocidies. Sì, perché qui si racconta dell’inesorabile fine dell’uo- mo e non c’è nessun eroe a tirar fuori

il coniglio dal cilindro.

DAVID GUY COMPTON L'occhio Insonne

Noto soprattutto per l’adattamen- to cinematografico di Bertrand Ta- vernier, il romanzo è un potente “je accuse” all’invadenza dei media, all’e- sposizione quotidiana della vita pri- vata, al cinismo nel gestire il gigan- tesco affare che tutto ciò comporta. Qui è l'agonia di una donna ad andare in diretta continuata. Mostra d’atro-

cità, per dirla con Ballard.

Daniele Barbieri

Terrestre per caso - La Bottega del Barbieri

PREMESSA "C'è un problema! dibbì ha cominciato a urlare, "come 5 più 5? ne voglio 50 più 50". Abbiamo dovu- to sedarlo (con mezzi pacifici). Dunque queste 10 “scelte” sono le frasi che ha detto prima dell'agitazione massima. A richiesta vi faremo avere notizie delle sue condizioni di salute ... se dovesse

riprendere in-coscienza.

FREDRIC BROWN La Sentinella

In un racconto, anzi in una sola pagi- na, ci possono essere più mondi che in lunghe quadrilogie. Questo è il rac- conto perfetto, lo sconquasso totale ma altre volte Brown è andato vicino al Big Bang Om.

ARTHUR CLARKE

Le Gutde Del Tramonto

Il diavolo ci mette la coda (cioè il

CINQUE + CINQUE

ROBERT SAWYER WWWI-IL Rasveglio

PHILIP DICK La penultima verità

La fantascienza è morta? Macchè, E dopo Follia per sette clan, Ma gli

ecco un canadese che dalle parti del androidi sognano pecore elettriche?, 2010 sa scrivere di sogni-incubi-pos- Noi marziani, | simulacri, Svegliatevi sibilità, con le giuste dosi di scienza dormienti, Ubik, Un oscuro scrutare, e/o tecnologia. Ed è anche abbastan- L'uomo nell'alto castello ecc. lo amo- za ottimista, dunque un reietto asso- 0000 Dick quanto detesto i dickologi.

luto.

VIII cli CLIFFORD SIMAK I retetti dell'altro pianeta Czty : - «C'era un muro». Forse c'è sempre L'inizio ancora lo so a memoria: «Ci

(più di prima). C'era/c'è un'utopia,

sono leggende che i Cani racconta- giustamente ambigua. «Mi avvicino no quando le fiamme ruggiscono alte di 2 passi, lei si allontana di 2 passi. [..] I cuccioli siedono muti e quando Cammino per 10 passi e l’orizzonte si la storia è finita fanno molte doman- sposta 10 passi più in là. Per quanto de: cos'è un uomo? oppure: cos'è una cammini, non la raggiungerò. A cosa

città?»

serve l'utopia? Serve proprio a que- sto: a camminare» (Eduardo Galeano). THEODORE STURGEON Cristalli Sognanti MARGE PIERCY

- Sul filo del tempo In un certo senso io sono Horty Bluett Ù o potrei esserlo. Anche voi, credo. Ma Qui ho imparato, ricordato, introiet- in un certo senso io sono sempre sta- tato, che «Per conquistare un futuro to anche Charlie Johns (Venere più X) bisogna prima sognarlo». e voi pure. In un certo senso io sarò,

F. POHL E C. KORNBLUTH

I mercanti dello spazio

superuomo). .

come voi, Baby e avrò tre anni. (Più

che umano o se preferite Nascita del

Il titolo fa pensare a un romanzetto

ALFRED BESTER e invece nel 1958 qui c'era già quasi

L'uomo disintegrato tutto quello che serve per sapere chi

colpo di scena), tutta la storia uma- na sottosopra, una libertà ambigua contro felicità e saggezza “imposte” e poi i futuri che incalzano. | difetti?

Ma chissene.

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Nel cuore di una storia che mi ri-cat- tura ogni volta che la leggo, imber- bissimo (giuro) trovai, sottolineai e meditai la frase «La differenza fra uno Stato assistenziale e un despota benevole è minima»; impossibile da

dimenticare.

è «il nemico interno», cioè pubblicità e multinazionali. Il boia marcia alla (nella) nostra testa perchè noi, ogni

giorno, andiamo a casa sua per dar-

gli soldi. Spontaneamente e persino

sorridendo.

Domenico Gallo

Scrittore e saggista di fantascienza

STANISLAW LEM Solaris

Sfacciatamente ateo e scientista, Stanislaw Lem risulta, a volte, un po’ pedante, ma Solaris rimane un capo- lavoro assoluto della fantascienza, anche grazie alla versione cinemato- grafica di Andrej Tarkovskij. Il tema del simulacro, ovvero di un entità ma- teriale in grado di riprodurre perfet- tamente una persona, a differenza di Philip K. Dick, è visto come modalità di relazione materiale con se stessi. Il materialismo puro di Lem si espri- me nella creazione di immagini pro- venienti dai ricordi che consentono di continuare una vista cognitiva ed

affettiva interrotta dalla morte.

KATHARINE BURDEKIN La Notte Della Svastica Pubblicato nel 1937 quando il nazi- smo è al potere da soli quattro anni, questa unica opera di Burdekin tra- dotta in italiano è capace di proiet-

tare nel più lontano futuro l’orrenda

utopia nazista. Utopia, naturalmente,

UAU 10

per solo una parte della società e a 5

discapito degli altri, il libro coglie ap- pieno l’orrore di una società nazista realizzata, ma, a differenza della sto- ria, questa utopia si sviluppa in ma- niera sessista, creando una struttura di emarginazione e umiliazione socia- le per le donne. Burdekin, che poi si occuperà di utopie femminili, è unica nel cogliere nel nazismo una radice sessista che il delirio nazista porta in

secondo piano.

LEWIS SHINER

Vistoni Rock Incapsulato nella giostra del cyber- punk, Visioni rock è in realtà una scrittura postmoderna molto intelli- gente. ll protagonista del romanzo fi- nisce nel passato e cerca di impedire la morte prematura delle grandi star del rock. Il libro è una straordinaria ricostruzione del sogno generaziona- le che si sviluppa attorno alla musica e, a ben vedere, preannuncia alcuni temi di un grande romanzo di Ste- phen King come 22/11/63.

4) JAMES BALLARD

Il Mondo Sommerso Esordio al romanzo di James Ballard (1965), in questo libro è racchiuso il suo intero universo narrativo. Una variazione nella radiazione solare ha prodotto lo scioglimento dei ghiac- ciai e Londra è sommersa dalle ac- que, le strade sono diventate canali tropicali fiancheggiati dagli ultimi piani dei grattacieli. La città è qua- si disabitata e solo alcuni eccentrici personaggi vivono in sintonia con il nuovo ambiente. A cinquant'anni di distanza i ghiacciai si stanno davve- ro sciogliendo, e noi, grazie a Ballard,

sappiamo cosa ci attende.

PHILIP K. DICK

Lotteria Dello Spazio

Il primo romanzo di Dick viene pub- blicato in pieno maccartismo, quan- do solo gli scrittori di fantascienza riuscivano a pubblicare opere che criticavano le pratiche liberticide del governo degli Stati Uniti. In que- sto caso Dick denuncia un grande complotto che coinvolge proprio il Presidente del Sistema Solare, un uomo che è riuscito a manipolare il sistema elettorale computerizza- to. Attorno a questa critica politica che denuncia la progressiva perdita di autorità della Costituzione, Dick descrive quello sfondo umano che caratterizzerà tutti i suoi romanzi. Operai e artigiani che vivono digni- tosamente del proprio lavoro ven- gono progressivamente coinvolti in oscure manovre di potere, nuo- ve religioni si affacciano per offrire una speranza lontano dalla Terra e dal Sistema Solare, divinità scono-

sciute entrano in campo in un futu-

ro incerto.

USAI et I Rezetti Dell'altro Pianeta Lo lessi a tratti in classe, prima sot- to il banco, di nascosto, poi como- damente sul banco, vincendo quella ritrosia che mi trovavo dentro senza sapere perché. Divenne subito il li- bro dei giovani ribelli che leggevano fantascienza e giustamente divenne il nome della rivista militante che ab- biamo più amato. Davvero il richiamo all’ambiguità del sottotitolo aveva dentro un intero mondo di contraddi- zioni che ben esprimevano la lotta po- litica del decennio. Curioso che fosse

un libro del continente nord-america-

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no, visto che volevamo vantare, per ignoranza, il monopolio europeo del- la radicalità. Ma Shevek è stato poi sconfitto nella sua curiosità, nella sua diffidenza verso la tradizione (anche quella libertaria)? | reietti mi era pia- ciuto meno de Il mondo della foresta di Ursula Le Giuin (forse uno dei libri politici più diretti e radicali della fan- tascienza assieme a Guerra eterna di Joe Haldeman), ma è un libro che rimane nella “cassetta degli attrezzi”, come direbbe Antonio Caronia, per sempre. E capisci che, nonostante

tutto, c'è un torto e c’è una ragione.

F. POHL E C. KORNBLUTH I Mercanti Dello Spazio

Pohl

la Young Communist League e del

era stato un militante del-

Communist Party of the United Sta- tes of America durante gli anni Roo- seveltiani, e assieme ad altri appas- sionati di fantascienza che vivevano a Brooklyn avevano dato vita ad as- sociazioni di cultori della fantascien- za comunisti (Cyril Kornbluth, Donald Wollheim, Judith Merril, Damon Kni- ght e, fino a un certo punto, lo stesso Isaac Asimov). Nel 1952, quando esce questo romanzo, è in corso negli Stati Uniti la più feroce e ottusa persecu- zione intellettuale nota genericamen- te come maccartismo (in realtà un fenomeno più ampio di quello a cui contribuì direttamente il senatore Joseph McCartny) e la fantascienza è l'unica forma culturale che attacca direttamente il capitalismo, il consu- mismo, la pubblicità, l’autoritarismo e il perbenismo. Di questo coraggio- so fronte radicale, | mercanti dello spazio (e anche il suo seguito Gli anti mercanti dello spazio) è il ca-

polavoro assoluto.

CINQUE + CINQUE

SAMUEL R. DELANY

Iriton A un certo punto avevamo scoperto che Delany era nero e gay, probabil- mente marxista (ma la cosa ci sor- prendeva un po’ meno). Era uscito in Italia nel 1978, e ancora non ci sem- brava di avere le ossa rotte. Legger- lo, ancora ricordo, mi aveva emoti- vamente colpito, perché la storia di Bron (con quel suo strano mestiere dagli echi logico-matematici) era di una leggerezza particolare. Non era fantascienza dura ma morbida. Pre- sentava alcune situazioni quasi clas- siche, come la lotta tra la vecchia Terra e i pianeti esterni, ma la storia era prepotentemente sentimentale, nel senso che le possibilità creative della fantascienza consentivano ai sentimenti di esprimersi profonda- mente. Oggi diremmo che si trattava di sensibilità trans gender, ma allora non esisteva neppure il nome, e sfido un qualsiasi lettore di fantascienza a dimenticarsi il nome di Spiga, l’arti- sta. Bron e Spiga saranno per sempre tra i personaggi che più hanno colpi-

to l’immaginazione di quegli anni.

E] JOHN SHIRLEY Eclipse

Sì, Neuromante di William Gibson vie- ne pubblicato nel 1984 e il primo vo- lume della trilogia di Shirley intitolata A Song Called Youth, un anno dopo, ma credo che il cyberpunk politico sia stato influenzato più da Eclipse. Neu- romante possiede il primato di avere compreso l’estensione della realtà ver- so le costruzioni virtuali, inglobandole comunque del mondo della produzione e dello sfruttamento, ma Eclipse riesce a descrivere compiutamente l’involu-

zione neoliberista e il ritorno degli utili

mastini del capitale: i fascisti del con-

servatorismo cristiano.

ROBERT A. HEINLEIN Straniero In Terra Straniera

La storia è nota, Michael Valentine, un neonato terrestre cresciuto dai marziani, torna sulla Terra inconsa- pevole della cultura terrestre e degli strani poteri che gli hanno conferito i marziani. La sua condotta è conside- rata anticonformista e spregiudicata, e un ricco avvocato californiano lo protegge dall’avidità dei politici terre- stri, ma la figura di Valentine è desti- nata a creare un conflitto insanabile. Considerato da molti una bibbia della controcultura, Straniero in terra stra- niera è un libro politicamente ambi- guo e contraddittorio. Aspetti liberali e libertari si accavallano in una scena di libertà sessuale e di sfrenata ric- chezza. Heinlein, a torto considerato un fascista per Fanteria dello spazio, aveva militato in gioventù in organiz- zazioni della sinistra populista guidate da Upton Sinclair. Le sue opere, oggi considerate come testi politici dal Libertarian Party, propagandano le li- bertà sessuali e personali, ma sosten- gono la necessità di non porre freni al capitalismo. Fantascienza molto politica, certamente, ma dell’area quasi neoliberista, che non riesce a comprendere la differenza tra libertà

personali e sociali.

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In ricordo di Primo Moroni

Poco più che ventenne, dalla facoltà di Sociologia di Trento, arrivai a a Milano nel 1970. Come parecchi studenti del movimento di quella università, scelsi la militanza politica in una grande città operaia. Capitai ben presto alla libreria Calusca. Quel tipo alto e smilzo dai capelli lunghi fino alla base del collo, dimessamente vestito ma con qualcosa di personale addosso, che fosse un gilet nero o un foulard colorato, ti accoglieva quasi che gli facesse un piacere speciale vederti lì. Sapeva ascoltare e poi trasmetterti le sue esperienze più vive, relative a un libro, un conoscente, una scoperta fatta accostando il suo passato al terremoto sociale allora in corso.

Da Primo si incontravano persone dalle appartenenze più disparate: insegnanti delle 150 ore, figli dei fiori, militanti di Lotta Continua, Avanguardia Operaia, autonomi, i cosiddetti cani sciolti. Ai libri delle donne era dedicato un settore a parte subito individuabile. Non solo e soltanto perché il suo mestiere di libraio lo portasse per forza a dialogare con tutti, no, sono convinta che fosse per un'attitudine rara. In passato Moroni aveva attraversato i ceti e i quartieri più disparati di Milano, abitando e lavorando nel centro storico ai tempi popolare e con presenze sottoproletarie, frequentato le sezioni del PCI, manifestando con i giovani delle magliette a righe durante gli scontri di Genova, venendo a contatto con qualche borghese illuminato e i tanti operai delle fabbriche disseminate nelle periferie. Bella la breve autobiografia di Primo, testimonianza orale raccolta da Bermani, che si può leggere anche in internet, dove sembra di risentire il sound della sua parlata: la battuta, l’affondo acutissimo, la modestia, l'ironia. La sua natura era antisettaria, in un momento in cui ciascun gruppuscolo pensava di detenere la verità, l'unica analisi politica all’altezza.

Dalle conversazioni in libreria corredate da citazioni di pensatori, di scrittori, di femministe difficile uscire dalla Calusca senza qualche libro in mano, più di una volta a credito - si passò all'amicizia. Lo riscontrai quando a me e al mio compagno di allora aprì le porte di casa sua,

facendoci conoscere sua moglie Sabina, la figlia Maisa

e le sue frequentazioni più strette. Fino a permetterci di partecipare alle riunioni di redazione di Primo Maggio, la rivista diretta da Sergio Bologna, presenti Cesare Bermani, Cristian Marazzi, Bruno Cartosio, Marco Revelli, per citarne solo alcuni.

Un giorno a casa sua, in via Cesare da Sesto, lo informiamo che stiamo cercando qualche mobile vecchio per arredare la soffitta dove siamo andati a stare. E Primo che fa? “Prendete i mobili di questa stanza”, dice. E ci offre l'arredo completo di una delle due stanze soggiorno. Così traslocano da noi un grande tavolo simil-frattino, un lungo buffet pieno di sportelli, sei sedie. La cosa sconvolgente è che frequentando la sua casa negli anni successivi, trovai quella stanza perennemente vuota. Quei mobili non ce li aveva regalati perché li voleva cambiare, cosa che naturalmente avevo pensato in un primo momento. Ma perché noi ne avevamo bisogno.

Se Primo era antisettario e tollerante, non vuol dire che non avesse una sua precisa lettura della fase e dei suoi vari passaggi. La sua attività politica aveva preceduto il 68 quel lungo 68 italiano durato una decina d”anni, diverso anche per durata rispetto a quello di altri paesi lo seguì poi nelle sue evoluzioni e ne assaggiò la sconfitta. In tutto quel periodo storico Primo non è stato un semplice divulgatore, come ha detto qualcuno, fu molto di più. E anche la parola autodidatta non mi convince. Ricordiamo cos'è stato il Partito comunista negli anni Cinquanta e Sessanta e il suo ruolo di acculturazione, i dibattiti innestati dalle riviste Quaderni Rossi e Classe Operaia e a Milano dalla Casa della Cultura, la temperie creata in città dal teatro, dalle canzoni, dai film, dai circoli e dai club, compreso il suo, di Moroni, il “Sì o Sì”. Ricordiamo cos’erano certe collane Einaudi, Feltrinelli, Editori Riuniti, prima e assieme della valanga delle riviste e dei testi pubblicati da una miriade di piccole case editrici esplose dopo il 68. Di questo rendemmo conto io e Primo in un articolo, firmato da entrambi, pubblicato su Ombre Rosse, la rivista di Goffredoi Fofi, anch’esso rintracciabile in internet. Un

sapere non accademico basato su studi appassionati, che

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nasceva nelle redazioni, nei gruppi di studio, nelle sedi politiche, nelle librerie, nelle case (come per il gruppo di donne che si riunivano nell’appartamento di Carla Lonzi). Che si alimentava di letture e del confronto di analisi personali che diventavano collettive e tornavano ad essere personali in un circuito vivo che non dimenticava quanto contasse l’esperienza. Non credo che fosse un sapere inferiore a quello universitario. Per capire quanto la parola autodidatta stesse stretta a Primo Moroni è sufficiente leggere una sola cosa: la sua recensione all’opera di Ballard, riproposta di recente dal Manifesto.

Chi era dunque Primo? Un rivoluzionario, secondo la grande tradizione dei secoli scorsi. Con la sua tensione etica, l'assunzione del rischio, la rinuncia al benessere e al consumo imposto dalla nostra epoca. Capace di prendere per la totalità delle migliori potenzialità umane e di disseminarle attorno a sé. Di essere un uomo ricco. In quel senso. Dentro una vita creatrice. Perché il pensiero e l’azione politica procurano piacere. Primo come tutti noi ha conosciuto gli anni della sconfitta, della controffensiva che si è mangiata buona parte di ciò che era stato ottenuto in quei dieci anni di lotta, ma ha anche vissuto quella stagione inebriante, che ne ha fatto l'essere che è stato. Fu la scoperta che si poteva abbandonare la gabbia dei problemi individuali, impoverenti, depressivi e muoversi fuori, alla luce, con gli altri, per scopi che riguardavano il mondo intero, te compreso. Non si lottava per il sol dell'avvenire, ma per vivere ora, adesso, con modalità già diverse nell’immediato. Qualcuno l’ha letto come il portato di occidentali viziati dal consumismo. Preferisco la versione di Guy Debord, tratta dalla Comune di Parigi, ritrovata nel Maggio francese. La vita quotidiana era al centro, doveva essere rivoluzionata. Sì, la rivoluzione era una festa. Fare politica, appagante, la più appagante delle pratiche. Agli attacchi, agli arresti, ai timori di un colpo di stato si rispondeva galvanizzati operando una trasformazione fattiva. | risultati arrivavano: i salari aumentavano, la democrazia entrava in fabbrica, si concretizzava il diritto allo studio con le 150 ore e l'università di massa, venivano conquistati il diritto al divorzio e all'aborto. Questo per un tempo niente affatto breve.

Voglio ricordare Primo Moroni come un protagonista di questa “felicità pubblica”, a costo di sfiorare il ridicolo dati i tempi che stiamo vivendo ora. Lui, con qualcosa di personale in più: la generosità, l’empatia, il piacere dello scambio reciproco, l’attenzione all’altro. Che queste doti

fossero in quantità e qualità eccezionali lo attestano il suo

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funerale. Mai mi era stato dato di vedere un funerale così immenso. Un corteo commosso lungo il quartiere ticinese, che aveva ospitato diverse sedi della Calusca nel corso di tanti anni. Sergio Bologna in lacrime, centinaia di persone affrante, i fumogeni colorati lanciati dai più giovani, l’ultima generazione politica dei centri sociali con cui lui aveva saputo affratellarsi.

Certo in questi ultimi decenni il contrattacco allo spirito del 68 è stato profondo e violento. Luciano Gallino ha reso bene l’amalgama di radicale trasformazione del sistema produttivo e finanziario e di strumenti d’attacco alle classi dei dominati. La lotta di classe non è relegata al passato inoperosa, è costantemente in atto e attualmente registra la vittoria dei dominatori del mondo, in cui le multinazionali e le grandi banche, peraltro intrecciate societariamente tra loro, contano più dei politici. Credo che Moroni avrebbe dissentito dalle rappresentazioni più in voga del 68 in questo centenario, come da quella più smerciata tempo addietro, che aveva tentato di ridurre l’esperienza travolgente di quel periodo alla misera e manipolatoria espressione di “Anni di piombo”. Adesso si preferisce ridurre gli entusiasmi di quel periodo, impossibili da occultare storicamente, a mero antiautoritarismo, rivolta contro i padri, lotta per i diritti civili, liberazione sessuale. Non che non fossero perni della lotta politica,

e praticati in vite messe sottosopra. Ma come cancellare le rivendicazioni sociali, l’egualitarismo, la saldatura dei giovani con i lavoratori, la capacità di attenuare la forbice tra i redditi? Differenze di reddito poi esplose con la rimonta padronale documentata statisticamente dal lavoro di Thomas Piketty. Ricordo un Moroni allarmato per come avevano preso ad andare le cose negli anni Ottanta, quando mi parlava di quei pensionati del quartiere, ciascuno con un nome, una faccia, una storia, costretti a pasti a base

di pane e latte, latte che sazia e costa poco. Di Primo ci mancano la sua curiosità diventata metodo di studio, la sua attività di indagatore sociale, le sue illuminazioni che si riverberavano su di noi. Ci mancano la sua voce, il suo

modo di vestire, le sue bonarie strigliate.

Bruna Miorelli

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